Intervista di Simona Squadrito: “Vittorio Garatti l’architetto interprete della dimensione umana della vita”
Questo hideout è dedicato a restituire una panoramica dell’incredibile carriera dell’architetto Vittorio Garatti, coinvolto in importanti progetti internazionali tra cui la costruzione delle Scuole Nazionali d’Arte all’Havana (1961-1962). Proprio a lui sarà dedicata una mostra personale, a cura di Christan Zecchin, in chiusura della 58. esima edizione del Premio Internazionale Bice Bugatti – Giovanni Segantini che, alla relazione tra Arte e Utopia, ha riservato un’intera sezione.
La direttrice di Villa Vertua Masolo e critica d’arte, Simona Squadrito, ha raccolto in una lunga intervista la testimonianza di Vittorio Garatti, di cui questo hideout ne riporta una piccola parte.
Di conseguenza, buona lettura e non mancate questo sabato 30 settembre a Nova Milanese a Villa Vertua Masolo, per l’inaugurazione della mostra.
Il 1° gennaio 1959 trionfa la Rivoluzione Cubana, Ricardo Porro rientra a Cuba, e dopo un anno invita Vittorio Garatti e Roberto Gottardi a trasferirsi sull’isola per assumere il ruolo di professori all’università. […] Chiamati a collaborare realizzeranno quella che ad oggi è considerata l’opera di architettura moderna più importante realizzata a Cuba, secondo molti l’unica vera “architettura della Rivoluzione”, le Scuole Nazionali d’Arte per il Terzo Mondo, commissionate direttamente da Che Guevara e Fidel Castro, per convertire uno dei luoghi più esclusivi della borghesia in un centro culturale per le arti dove accogliere le culture di Asia Africa e Latinoamerica. […]
Come dice lo stesso Garatti: « Arrivando alla forma il più tardi possibile ci si avvicina al tema di progetto analizzandolo secondo più punti di vista; funzionale, per cui la caratterizzazione della funzione ovvero degli spazi che la ospitano, economico-costruttiva, e soprattutto culturale, storico e artistico. Aggiungendo costantemente informazioni ad un sistema aperto questo si modifica e si deforma in base ai differenti input che riceve. Si innesca così un processo creativo organico di “auto-generazione”delle forme. Se il processo è autentico il prodotto non sarà riconoscibile, spesso anche dallo stesso autore, un linguaggio nuovo che ha bisogno di tempo per essere compreso».
Estratto dal testo di Christian Zecchin: “Il Cosmonauta (Obbatalá)”.
[…]Simona Squadrito: Non posso fare a meno di notare dal tono di alcune sue risposte, in merito alle ingiustizie sociali, un enorme rammarico e tristezza, quasi come che lei si sentisse in qualche modo responsabile…
Vittorio Garatti: Penso che siamo arrivati a un punto in cui creare delle condizioni in cui ci possa essere effettivamente una giustizia sociale sia un’urgenza a cui nessuno deve sottrarsi. È giunto il momento di porre fine alle divisioni di tipo ideologico. L’ideologia è un po’ come l’utopia: serve da maschera per nascondersi e sottrarsi agli obblighi sociali, credendo inutile agire nella convinzione che questi progetti non potranno mai essere realizzati. Io resto della convinzione che lavorare e battersi per la giustizia sociale non sia un’utopia, ma una situazione concreta. C’è una grande differenza tra perdersi in idee fantasiose e invece, come faceva Fidel Castro, alzare un telefono e dire che occorre costruire una scuola di agraria!
I progetti falliscono perché ci sono delle persone idiote. Bisogna arrivare ad avere una nuova consapevolezza storica e sociale, così come le scoperte e le conquiste scientifiche dovrebbero aiutarci a fare veramente qualcosa di buono, ma forse questa è un’utopia. Non posso però fare a meno di credere che sia necessario avvivare questo tipo di percorso.
S.S:Da come mi parla di Cuba e del suo governo sembra che non ne vede le negatività, di quello che è stato considerato come un regime a tutti gli effetti. Come giudica il periodo postrivoluzionario?
V.G: Non credo di avere i paraocchi nei confronti del governo di Fidel Castro, riconosco le varie criticità di quel sistema, ma sono consapevole che qualsiasi processo produca delle deformazioni, si viene a creare un disordine che via via corrompe il sistema.
L’entropia è la misura del disordine e nel processo della rivoluzione si dà l’entropia. Poi, ovviamente, c’è anche la neghentropia, o entropia negativa, ovvero, ciò che riesce a introdurre un nuovo ordine, ciò che lotta contro il disordine.
Io esercito la mia facoltà di giudizio e di critica nei confronti di tutta una serie di problematiche che si sono venute a creare col tempo, ma nello stesso momento difendo e giustifico quello che è stato. Inoltre, senza fare troppi giochi di parole, non ritengo che la situazione in altri paesi ‘democratici’ sia migliore. Penso ai profughi, alla povertà dilagante, alle disuguaglianze, alla disgregazione del tessuto sociale e a molte altre cose che ritengo molto negative.
Per rispondere alla tua domanda, basta fare un confronto tra Cuba e gli altri paesi del Sud America, come ad esempio il Brasile, dove le ineguaglianze sociali sono parecchie, dove dilagano povertà e criminalità. A Cuba la situazione è assai diversa.
Se non ci fosse stata la rivoluzione e il governo di Fidel Castro, siamo sicuri che Cuba non si sarebbe trovata in condizioni simili a quelle del Brasile o del Messico?
A Cuba, al contrario di altri Paesi, i cittadini possono negoziare con il governo sulla salvaguardia del loro patrimonio storico e artistico. Infatti proprio adesso che è in atto una situazione di apertura con il mondo e con gli Stati Uniti i cubani pretendono di vincolare e mettere delle regole precise al turismo. […] La questione in merito al giudizio su un buono o un cattivo governo resta sempre la stessa: come possiamo uscire da determinate situazioni di miseria e disuguaglianza se il potere non sacrifica parte del benessere di una società? […]
S.S:Torniamo a parlare del suo lavoro. Come risponde alle domande che le vengono poste in merito al suo “stile” di progettazione?
V.G: Una volta una giornalista mi chiese se avessi o meno uno stile curvo, le risposi di no. Io non ho nessuno stile, il mio metodo nasce dal contesto. È necessario comprendere come vive la gente. Il contesto non è una cosa che si può più o meno seguire, il contesto c’è.
Solitamente gli architetti, anche quelli contemporanei, sono riconoscibili per una figurazione particolare. Il mio caso, invece, è differente. Alla forma ci arrivo il più tardi possibile, perché è la risultante dell’analisi del contesto.
Le Scuole d’Arte sono impregnate dello spirito e delle emozioni della rivoluzione. Dove si condensa la rivoluzione? Nelle emozioni, nel fatto che la mente è eccitata da quello che accade. Il contesto era Cuba, la sua cultura, i suoi artisti, i suoi scrittori, e poi c’era il tema, nel mio caso progettare una scuola per il balletto e per la musica.
Le Scuole Nazionali d’Arte sono costruite sul terreno del country club dell’Avana, immerso in un parco naturale meraviglioso. Non sono partito con l’idea di fare delle cupole o delle curve, l’idea è nata dallo studio dei movimenti dei ballerini, la mia è stata un’analisi funzionale. Insieme a Porro e a Gottardi siamo andati a vedere le lezioni di balletto. I ballerini danzavano nelle stanze delle palestre, stanze con pareti e tetti piani. Dopo aver visto i loro salti – sempre con l’idea di legare il movimento alle forme e alla costruzione –, abbiamo pensato di creare spazi capaci di accogliere i movimenti disegnati dai ballerini, creare un accompagnamento spaziale alle loro evoluzioni virtuali. È questo il motivo per cui ho utilizzato delle forme concave. […]
S.S: Adesso comprendo che cosa intende quando afferma di non avere uno stile codificato. Anche se mi viene da obiettare che una cifra stilistica continua a permanere nei suoi progetti. Infatti, nonostante il contesto, le limitazioni e il tema, ha sempre cercato di progettare spazi capaci di interpretare la dimensione umana della vita.
V.G: È così, e ciò avviene perché non ho mai lavorato nell’esaltazione tecnocratica della risoluzione di un problema costruttivo e basta, non ho risolto semplicemente una norma, ho sempre cercato di interpretare lo spazio della vita dell’uomo. Per me l’architetto è il tecnico dell’organizzazione degli spazi della vita, un’idea che ho sempre avuto in comune con Porro, che affermava spesso che l’architettura è «una cornice poetica della vita dell’uomo».
S.S: Quando lei afferma che l’architettura si “autogenera” intende questo?
V.G: Esatto. Spesso i romanzieri dicono che i personaggi gli scappano di mano. All’inizio ogni scrittore dà al proprio personaggio certe caratteristiche, in seguito però il personaggio vive di vita propria. L’espressione «mi è scappato» è usata per esprimere l’idea che i processi creativi si autogenerano.
La cosa che ritengo incredibile dell’esperienza delle Scuole Nazionali d’Arte è che questo progetto elaborato da tre architetti di formazione diversa è risultato unitario e organico. Ciò è stato possibile perché da una parte i materiali usati erano uguali per tutti e dall’altra perché l’analisi che abbiamo condotto è stata la medesima: abbiamo fatto scelte progettuali simili, le forme si distinguono solo perché sono legate a differenti funzioni, al tema e alle modalità costruttive dettate dai materiali utilizzati.
[…]S.S: Rileggendo l’intero suo percorso lavorativo ritiene di poter affermare di essere stato fortunato?
V.G: Sì, mi considero molto fortunato. Sono tornato in Italia con una valigia, anzi con due: una mia e una di mia moglie. Non sono arrivato dall’America con i dollari. Sono andato a lavorare nello studio di Ferruccio Rezzonico, architetto e amico, con cui avevo già lavorato in Italia prima dell’esperienza cubana.
[…]S.S: Vittorio, ma lei ha intenzione di andare in pensione?
V.G:Assolutamente no! Se me ne sto a casa con le mani in mano mi vengono le crisi.
Estratto dall’intervista di Simona squadrito: “Vittorio Garatti l’architetto interprete della dimensione umana della vita”.