Intervista a Vittorio Garatti
Fonte: www.atpdiary.com
L’Architetto come “tecnico dell’organizzazione degli spazi della vita”
Questa intervista è solo una piccola parte di una lunga chiacchierata fatta insieme all’architetto Vittorio Garatti.
Garatti è uno dei protagonisti dell’importate stagione culturale, di rinnovamento e di ricostruzione della Cuba post-rivoluzione. Tra i suoi progetti più noti vi sono: la Scuola di balletto e la Scuola di musica dell’Escuelas Nacional de Arte dell’Avana.
Per vedere i video e i documentari realizzati sul progetto dell ‘Escuelas Nacional de Arte dell’Avana potete visitare il canale youtube Vittorio Garatti, oppure il sito garattiecanepa.com
Simona Squadrito: Finalmente, grazie alla mostra Passaggi. Vincenzo Agnetti, Vittorio Garatti, Davide Nido,organizzata da La Permanete di Milano in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Brera e con il Bice Bugatti Club, arriva in Italia un importate riconoscimento pubblico per la sua carriera. In mostra viene raccontato soprattutto il suo più importante progetto, quello della Scuola di Balletto e di Musica nell’ambito dell’Escuelas Nacional de Arte di Cuba; progetto che ha coinvolto oltre lei anche gli architetti Ricardo Porro e Roberto Gottardi. Il suo progetto si inserisce all’interno di un più grande complesso che avrebbe dovuto accogliere ben cinque scuole dedicate a teatro, musica, danza moderna e classica e arti plastiche.
Il progetto è molto conosciuto e studiato in America Latina e negli Stati Uniti, come mai l’Italia è invece stata sinora così poco attenta e ricettiva rispetto al suo lavoro?
Vittorio Garatti: Credo che qui in europa ci sia stato poco interesse verso le scuole perchè non erano alla “moda”, ma soprattutto c’è stata scarsa informazione, anche perchè la scuola di Milano in particolare è sempre stata molto legata all’architettura razionalista e alla Bauhaus., mentre l’Escuelas Nacional de Artes è un progetto di architettura organica.
S.S: Mi può raccontare la gestazione del progetto dei 96 cubicoli della Scuola di Musica, che si estendono in un percorso ondulato simile a una colonna vertebrale di circa 360 metri?
V.G: Il progetto della scuola di Musica comprendeva oltre agli spazi di studio individuali e collettivi, i cubicoli, un teatro per la musica sinfonica ed uno per la musica da camera, oltre ad un edificio per la biblioteca, le aule conferenza, il coro e l’amministrazione, il tutto legato da un percorso in quota che collega tutti questi edifici formando una grande piazza, un foyer aperto integrato alla natura. Tra le richieste del programma funzionale c’erano 96 cubicoli e mi sono chiesto: dove li metto 96 cubicoli?
Tipologicamente e funzionalmente sarebbe stato più comodo fare una struttura verticale, ma sarebbe stato un azzardo progettare una struttura che avrebbe avuto bisogno di ascensori; c’era il blocco imposto dagli Stati Uniti, sarebbe stato impossibile chiedere i pezzi di ricambio, ci saremmo messi in un pasticcio. Allora ho pensato a un progetto realizzato in Inghilterra tra il 700 e l’800 per lo sviluppo della città di Bath.
Per progettare le Scuole d’Arte utilizzammo un metodo di progettazione che elaborammo in Venezuela, partendo dall’analisi del contesto. Per contesto si intende non solo il contesto fisico dei luoghi ma anche culturale, letterario, artistico, cinematografico, poetico e musicale. Studiammo i pittori cubani. Per farti un esempio Wifredo Lam fu un grande riferimento per me, così come le opere di Lezama Lima e soprattutto lo spirito della rivoluzione. Poi c’è l’analisi della funzione. Insisto molto sul fatto che bisogna caratterizzare la funzione per modellare lo spazio. Le risultanti di tutte queste analisi portano alla definizione delle figure e delle forme architettoniche.
S.S: Le sue due scuole non prevedevano né delle facciate né delle porte, l’idea era quella di costruire un edificio dove si potesse entrare e uscire liberamente. Lei in un’intervista dichiara che la facciata è il simbolo del potere, che rapporto ha il suo progetto con l’utopia? Si può definire la Escuelas Nacional de Arte come un progetto utopico?
V.G: Io non credo nell’utopia, perché penso soprattutto a trovare delle soluzioni concrete, a risolvere questioni legate a dei bisogni e a delle necessità precise della vita dell’uomo. Questo punto è molto importate. Vedi, la gente della rivoluzione cubana non sa niente, pensa che sia una specie di sogno, e che naturalmente come tutti i sogni non si sia avverato.
Noi non ci siamo posti la domanda sull’utopia, se quello che stavamo facendo fosse una cosa politica o no, utopica o non utopica, abbiamo realizzato un progetto che si inseriva in un contesto preciso, quello del trionfo della rivoluzione e della liberazione dal regime. La rivoluzione ha restituito dignità al popolo, ha pareggiato tutto, non c’era più la distinzione tra i ricchi e i poveri. Al trionfo della rivoluzione i primi investimenti furono nel campo culturale, la campagna dell’alfabetizzazione, la conversione delle caserme in scuole, la creazione della scuola di medicina e di cinema e le Scuole d’Arte per il Terzo Mondo.
Vista della scuola di Muscia ripresa dalla vicina scuola di Balletto. Foto archivio Garatti anno 1964
S.S: Perchè nel 1964 si interrompono i lavori della Escuelas Nacional de Arte? Dopo la rivoluzione ci sarà stata l’esigenza di rafforzare il potere, mentre il suo progetto culturale è diverso da un tipo di politica che vuole consolidare una forma di potere. Perché da quella grande libertà iniziale si è passati a sistemi costruttivi legati alle direttive sovietiche?
V.G: Il potere dà sempre delle indicazioni precise, ma è anche vero che durante i primi anni dopo la vittoria della rivoluzione, l’aspetto legato alla cultura era molto aperto. Tutto veniva messo in discussione, anche le cose più consolidate venivano discusse e se non erano giuste si cambiavano, non c’erano delle imposizioni a priori, l’artista era libero. Il metodo di costruzione introdotto dall’Unione Sovietica era quello più funzionale e economico. Passati i primi anni le risorse iniziarono a scarseggiare, il blocco imposto dagli Stati Uniti impediva di vendere o comprare prodotti, per questo motivo l’appoggio della Russia è stato fondamentale. Produrre mattoni era costoso e fu sostituito con metodi costruttivi più veloci e più economici iniziando ad utilizzare la prefabbicazione con materiali a basso costo.
S.S: Quindi il progetto si blocca perché finiscono i finanziamenti?
V.G: Si, Cuba era in guerra, per cui vengono destinati i soldi ad altri progetti. Una giornalista una volta mi chiese se io avessi uno stile curvo. Le risposi di no, io non ho nessuno stile, il mio metodo nasce dal contesto. Il contesto oltre ad essere ambientale e culturale è anche dato dal tema, ovvero la funzione, bisogna capire come vive la gente. Il contesto non è una cosa che si può più o meno seguire, il contesto c’è.
Solitamente gli architetti, anche quelli contemporanei sono riconoscibili per una figurazione particolare, invece, il mio caso è differente. Alla forma bisogna arrivare il più tardi possibile, ed è la risultante dell’analisi del contesto. Le Scuole d’Arte sono impregnate dello spirito e delle emozioni della rivoluzione. Dove si condensa la rivoluzione? nelle emozioni che uno ha verso un fatto, nel fatto che la mente è eccitata da quello che succede. Il conteso era Cuba, la sua cultura i suoi artisti, i suoi scrittori e poi c’era il tema, nel mio caso, quello di progettare una scuola per il balletto e per la musica.
Le Scuole Nazionali d’Arte sono costruite sul terreno del country club dell’Avana, immerso in un parco naturale meraviglioso. Non sono partito con l’idea di fare delle cupole o delle curve, l’idea è nata dallo studio dei movimenti dei ballerini, la mia è stata un’analisi funzionale. Insieme a Porro e a Gottardi siamo andati a vedere le lezioni di balletto. I ballerini danzavano nelle stanze delle palestre, stanze con pareti e tetti piani. Dopo aver visto i loro salti – sempre con l’ idea di legare il movimento alle forme e alla costruzione – abbiamo pensato di creare spazi capaci di accogliere i movimenti disegnati dai ballerini, creare un accompagnamento spaziale alle loro evoluzioni virtuali. Questo è il motivo per cui ho utilizzato delle forme concave.
A differenza dei razionalisti noi non avevamo un determinato stile codificato.
Ti faccio un altro esempio per farti capire cosa intendo quando dico di non avere uno stile codificato. In quegli stessi anni anni mi fu commissionata, sempre all’Avana, la progettazione per la Scuola di Agraria Andrè Voisin a Guiness. Il sito era diverso, non era il country club, ma un campo dove si coltivavano prodotti agricoli, tipo risaia, che periodicamente veniva inondato. A differenza della scuola di Balletto, dove avevo delle limitazioni sui materiali da utilizzare (cemento e ferro ne avevamo poco, ma c’erano, invece, molti mattoni e terracotta) per la Scuola di Agraria, avevo di fronte un altro tipo di contesto e l’unico vincolo era di terminare l’opera in tempi molto brevi.
Come costruire una scuola per 1500 studenti in tre mesi? Abbiamo optato per la prefabbricazione a “piè d’obra” (in sito), prima della diffusione della prefabbricazione di massa. Se osservi la planimetria della Scuola di Agraria vedrai dei padiglioni che si ripetono. Il tema qui era quello di organizzare dei dormitori, delle aule e dei servizi comuni. La scelta costruttiva ci ha permesso di creare ambienti e situazioni diverse nella serialità totale. Come puoi vedere, nonostante la ripetizione dei moduli abbiamo introdotto delle differenze; i padiglioni sono stati assemblati in modo tale da creare delle piazze, nel tentativo di costruire un piccolo villaggio, un borgo, una città, una situazione viva.
Non abbiamo fatto delle scelte puramente funzionali di stampo razionalista, dove c’è un’organizzazione spaziale veramente militare. Se tu guardi i progetti architettonici degli anni ’50 e ’60 di urbanizzazione di città intere, noti una serialità ossessiva, diversa dal progetto della Scuola di Agraria che ha, invece, una ripetitività solo nella tecnica costruttiva.
S.S: Adesso mi risulta molto più chiara la sua affermazione in merito alla questione di non avere uno stile. Anche se mi viene da obiettare che una cifra stilistica continua a permanere nei suoi progetti, infatti, nonostante il contesto, le limitazioni e il tema, lei ha sempre cercato di progettare spazi capaci di interpretare la dimensione umana.
V.G: Io non ho mai lavorato nell’esaltazione tecnocratica della risoluzione di un problema costruttivo e basta, non ho risolto semplicemente una norma, ho sempre cercato di interpretare lo sazio della vita dell’uomo. Per me l’architetto è il tecnico dell’organizzazione degli spazi della vita, così come Porro affermava spesso che “l’architettura è una cornice poetica alla vita dell’uomo”.
Vista aerea della città di Bath
S.S: Quando lei afferma che l’architettura si “autogenera” intende questo?
V.G: Sì, esatto. I romanzieri spesso dicono che i personaggi gli scappano di mano. All’inizio ogni scrittore dà al proprio personaggio certe caratteristiche, dopo però il personaggio creato vive di vita propria. L’espressione “mi è scappato” è usata per esprimere l’idea che i processi creativi si autogenerino. La cosa che ritengo incredibile dell’esperienza delle Scuole Nazionali d’Arte è che questo progetto fatto da tre architetti di formazione diversa, è risultato unitario e organico. Questo è stato possibile perché i materiali usati erano uguali per tutti e l’analisi che abbiamo condotto è stata la stessa. Abbiamo fatto scelte progettuali simili, le forme si distinguono solo perché sono legate alle differenti funzioni, al tema ed alle modalità costruttive dettate dai materiali utilizzati.
S.S: Lei è conosciuto soprattutto come l’architetto della rivoluzione cubana, diciamo che è un’icona. La rivoluzione come lei stesso spesso racconta è stato avvenimento fondamentale nella sua storia e ha incarnato un certo tipo di valori. Una volta rientrato in Italia, però, lei ha iniziato a lavorare con i privati e non più con le istituzioni pubbliche, diciamo che ha iniziato a lavorare per quelli che stanno dall’altra parte della barricata. Come me lo spiega?
V.G: Lo spiego con la fame, è stata una scelta legata alla sopravvivenza. A questa domanda potrei rispondere anche entrando nel merito di quello che è la professione di architetto qui in Italia, una situazione che non molto è cambiata. Porro, che in seguito si è trasferito in Francia, è stato più fortunato di me, infatti ha potuto realizzare quasi esclusivamente opere pubbliche: ospedali, caserme, scuole. Più che fortuna è una questione legata al contesto. Porro ha trovato un ambiente differente, ma da noi, in Italia, c’è un sistema diverso. Inoltre penso che tutti noi abbiamo un angelo che ci aiuta, ma c’è chi sfrutta l’angelo e c’è chi non capisce e non riconosce l’angelo.
S.S: Rileggendo l’intero suo percorso lavorativo ritiene di poter dire essere stato fortunato?
V.G: Si, io mi considero molto fortunato. Sono tornato in Italia con una valigia, anzi, con due: una per me e una per mia moglie, non sono arrivato dall’America con i dollari. Sono andato a lavorare nello studio di Ferruccio Rezzonico, architetto e amico, con cui avevo già lavorato in Italia prima dell’esperienza cubana.
S.S: Mi parli del padiglione cubano che ha realizzato insieme all’architetto Sergio Baroni per l’Expo di Montreal del 1967.
V.G: Fu dopo qualche anno dalla vittoria della rivoluzione. Solitamente nelle esposizioni internazionali ogni paese espone il massimo che possiede: le sue macchine, i suoi prodotti. Cuba non aveva niente, non aveva un assetto industriale per produrre. Allora Sergio Baroni, che aveva un cervello miracoloso, pensò di mostrare a tutti la rivoluzione. Io ero innamorato del cervello di Sergio, forse perché quando ero da bambino mi hanno fatto passare per deficiente, e questo perché avevo la malattia del sonno.Soffrivo di apnea notturna, avevo il sonno disturbato e quindi mi addormentavo durante il giorno. Ricordo che una volta, in prima elementare, mi sono addormentato, così la maestra mi prese e mi mise all’ultima fila, da quel momento ho avuto un’ammirazione per i cervelli. Un cervello bellissimo lo aveva anche mia moglie, io mi innamoro moltissimo del cervello.
Ma ritornando al discorso sul padiglione per l’Expo, Sergio, consapevole del fatto che non potevano esporre solo sacchi di zucchero, pensò di esporre la rivoluzione. Per fare questo, abbiamo inventato dei proiettori a forma di tubi, per mostrare diapositive e pellicole che raccontassero Cuba e la sua storia.
L’idea era semplice, se la gente non entrava a Cuba perché aveva paura, allora noi potevamo mostrare Cuba all’esterno. Abbiamo raccontato la storia a partire dalla tratta degli schiavi d’Africa, la storia fin dal principio, tutto il processo. Abbiamo anche mostrato alcuni disegni che spiegavano come stipare gli schiavi nelle navi nella maggior quantità possibile, dato che durante la traversata ne morivano tra il 30 e il 40 per cento. La traversata era molto lunga, durava alcuni mesi, e loro stavano stipati nella stiva come fossero mercanzia.
S.S: Non trova che ci sia una corrispondenza incredibile tra il “mestiere” degli schiavisti e quello odierno degli scafisti?
V.G: Certo! pensa tu come la storia di ripete.
Per vedere i video e i documentari realizzati sul progetto dell ‘Escuelas Nacional de Arte dell’Avana potete visitare il canale youtube: Vittorio Garatti, oppure il sito: www.garattiecanepa.com, o accedere alla pagina Facebook : Comitato “Vittorio Garatti”.
Foto delle aule pratiche della scuoal di Balletto. Foto di Christian Zecchin anno 2016
La Jungla, disego di Vittorio Garatti