Intervista a Jorge Fernández Torres | Museo Nazionale di Belle Arti di Cuba
Intervista con il direttore dell’XI e XII Biennale dell’Avana e attuale direttore del Museo Nazionale di Belle Arti di Cuba
Simona Squadrito: Quali sono i motivi che ti hanno portato qui in Italia? Ci sono speranze che tra le istituzioni artistiche italiane e quelle cubane nascano nuovi scambi e nuove relazioni?
Jorge Fernández Torres: Assolutamente sì. La speranza è appunto quella di rafforzare delle relazioni che già sono profonde tra i nostri due Paesi. Ritengo che sia fondamentale continuare a facilitare e incrementare i rapporti tra le istituzioni, come ad esempio quelle avviate con l’Accademia di Belle Arti di Brera o con il Politecnico di Milano, con il Bice Bugatti Club e con la Libera Accademia di Pittura Vittorio Viviani di Nova Milanese. Il mio viaggio in Italia si inserisce in questo tipo di intento. Sono stato invitato al MAXXI di Roma, all’Accademia di Belle Arti di Brera e al Politecnico di Milano per raccontare e far conoscere la storia e i nuovi sviluppi dell’architettura cubana; in particolare, mi riferisco ai progetti sviluppati dall’architetto Vittorio Garatti. Infatti, tra i complessi architettonici cubani più illustri spicca l’Escuela Nacional de Arte, che è stata progettata da due architetti italiani: Vittorio Garatti, Roberto Gottardi e da un architetto cubano, Ricardo Porro. Come ti dicevo, le relazioni tra Cuba e l’Italia hanno radici profonde: uno tra i più grandi scrittori del Novecento italiano, Italo Calvino, è nato all’Avana e ha influenzato parecchio la letteratura cubana. Anche il grande cinema neorealista italiano ha avuto un’enorme influenza su quello cubano. Il regista cubano Julio García Espinosa scrisse Per un cinema imperfetto, un saggio sul cinema che risente enormemente dell’influenza del cinema italiano, delle pellicole di De Sica come Ladri di biciclette, o di quelle di Rossellini come Roma città aperta, così come del cinema di Cesare Zavattini. Queste pellicole hanno influenzato il cinema e la cultura cubana sia prima sia dopo la rivoluzione. Le pellicole neorealiste hanno mostrato agli studenti che si occupavano di cinema rivoluzionario che la realtà ritenuta da loro noiosa era in realtà il soggetto principale da raccontare; così sono riusciti a superare la loro avversione per la realtà. Anche le arti visive italiane influiscono sull’immaginario degli artisti cubani. Da noi sono molto conosciute la Transavanguardia e l’arte povera. Non a caso stiamo collaborando con Michelangelo Pistoletto, che sta realizzando all’Avana il suo Terzo Paradiso. Abbiamo anche proiettato diversi documentari sulla sua vita e sul suo lavoro e abbiamo organizzato dei dibattiti e altre iniziative, invitando la gente del posto a partecipare. Gli esempi che posso farti sulle relazioni esistenti tra i due Paesi sono veramente tanti. Da poco abbiamo inaugurato una mostra dedicata al più importate artista futurista cubano, che fu anche un grande saggista e analista; mi riferisco a Marcelo Pogolotti, che fu amico di Marinetti. La figlia di Pogolotti, Graziella, vive in Italia ed è la fondatrice della rivista Revista de la Universidad de la Habana.
SS: Due anni fa moriva Fidel Castro: da quel momento ci sono stati dei cambiamenti nel sistema dell’arte cubana o tutto è rimasto invariato?
J.F.T: Tra l’attuale governo e quello di Fidel Castro, dal punto di vista delle politiche culturali, c’è assolutamente continuità. Fidel Castro ha lavorato molto per incrementare e migliorare il livello culturale del Paese; amava molto l’arte e per questo motivo l’ha sempre difesa. Fu lui a far costruire le scuole d’arte e a incentivare lo sviluppo dell’industria cinematografica. Fondò – subito dopo la vittoria della rivoluzione – uno dei ministeri più importanti dell’epoca, quello della cultura. Anche adesso, dopo la sua morte, l’obiettivo principale è rimasto il medesimo, ossia quello di tutelare e incrementare la vita culturale di Cuba. Le linee direttive di Abel Prieto, l’attuale ministro della cultura e una persona a me cara, sono un proseguimento di quelle di Fidel Casto. Si sta lavorando molto su questo versante: la Biennale dell’Avana sta raggiungendo livelli sempre più alti, si sta continuando il lavoro di tutela e restauro della Escuela Nacional de Arte che, come già sai, a causa di urgenze politiche ed economie sopravvenute dopo qualche anno dalla vittoria della rivoluzione, è rimasta incompiuta.
SS: Nel 2015 hai diretto e curato la Biennale dell’Avana, con un ambizioso progetto legato alle interazioni tra progetti site-specific e progetti socialmente impegnati. Tutti gli artisti hanno prodotto opere site-specific in relazione con il contesto sociale e culturale di Cuba. Che tipo di relazione può sussistere tra l’arte e la politica, tra l’arte e il sistema sociale?
J.F.T: Dal mio punto di vista tutto il sociale è politico, così come ritengo che ogni forma d’arte implichi una presa di posizione di tipo politico. L’arte non è avulsa dal suo contesto, infatti subisce l’influenza della vita e della realtà, e proprio per questo motivo prende una precisa posizione nei suoi confronti. Spesso la sfera politica si avvicina al mondo dell’arte con degli strumenti superficiali, e per queste ragioni i risultati dell’arte vengono come falsificati. Allo stesso modo l’arte che si occupa di politica spesso e volentieri sembra più tergiversare che prendere delle posizioni specifiche.
Sono dell’idea che la vocazione sociale dall’arte esista sia quando gli artisti esprimono delle posizioni allineate e compiacenti con il potere, sia quando gli artisti si scontrano con la politica; questo accade persino quando sembra che gli artisti non prendano alcuna posizione in merito. I problemi dell’arte di oggi sono in primis problemi di tipo etico, e solo in un secondo momento di tipo estetico. È importante in questo momento ragionare e confrontarci su ciò che viene ritenuto illecito e lecito nell’arte, problematizzare e capire cosa le è permesso e cosa no, ma soprattutto è necessario riflette sui suoi limiti. L’arte soffre da sempre di un grave problema, è vittima di un peccato originale: può autolegittimarsi e a sua volta il potere si legittima attraverso le sue istituzioni. Il potere, le istituzioni e il mercato hanno tutta una loro sottigliezza, un meccanismo sofisticato: riescono a incorporare la resilienza per poi renderla legittima. È un tipo di meccanismo che permette, ad esempio, a un’opera nata in un contesto e con un significato specifico di potersi trasferire altrove – magari in contesti assolutamente distanti dalle problematiche interne ad essa – e di assumere lo stesso significato e di legittimarsi ugualmente. La decontestualizzazione dell’arte e dei suoi significati è un fenomeno con cui dobbiamo confrontarci; in ultima istanza dobbiamo domandarci cosa può essere politicamente irriverente in un determinato contesto. Si tratta di questioni estremamente complicate, dove agiscono diversi attori, come le istituzioni o i collezionisti. Il collezionismo, ad esempio, determina un processo di potere che riesce a far traballare l’opera d’arte.
SS: I meccanismi che muovono l’arte contemporanea stanno alla base dei problemi stessi dell’arte contemporanea. A partire dagli anni Ottanta si assiste al turning point: da quel momento in poi il sistema dell’arte è piegato alle logiche del mercato, e ora come ora è difficile pensare a questo sistema come immune dalla corruzione, anche solamente di tipo ideologico.
J.F.T: Chiaro. Non a caso tutto quello che nasce con un intento critico e anche militante viene inglobato dalle istituzioni. La questione legata al rapporto tra l’arte e la politica non si riduce solamente alle questioni relative a un determinato sentire ideologico, ma si riferisce anche alla pesante influenza che il mercato ha sull’arte. Nonostante la questione legata alla speculazione del mercato sia sentita e ritenuta importante, rimane a mio avviso un problema fondato sul nulla. Durante gli anni Ottanta, quando ha preso piede la politica neoliberale, il presidente degli Stati Uniti Reagan affermò che l’arte doveva essere una fonte di ricchezza per il Paese, la merce per eccellenza, e siamo arrivati al punto in cui anche l’attivismo politico in arte è una merce.
SS: Durante l’incontro tenuto all’Accademia di Belle Arti di Brera, hai raccontato dell’ultima Biennale dell’Avana, che tu hai curato. Quel giorno hai insistito sull’importanza di produrre e pensare opere site-specifc. Vuoi aggiungere qualcosa in merito?
J.F.T: Come rappresentante di un’istituzione, la Biennale dell’Avana, ho ritenuto importante pormi delle domande precise per rispondere alle questioni legate al significato delle opere inserite in un preciso contesto, alla posizione dell’opera rispetto alla società e al glamour che essa genera. Per questo ho insistito per far lavorare gli artisti in contesti sociali complessi ed eterogenei: nelle strade e all’interno di comunità differenti, che spaziano dalle comunità scientifiche e accademiche a quelle più popolari. In generale, si è sempre più propensi ad accontentare il pubblico che preferisce vedere grandi opere spettacolari. Io, invece, mi sono mosso sul versante opposto a questa tendenza e alla fine ho chiesto agli artisti di lavorare partendo da contesti specifici, facendo riferimento al contesto cubano. Noi a Cuba non possiamo di certo offrire agli artisti quello che viene messo a disposizione durate la Biennale di Venezia, non abbiamo né un Arsenale né i Giardini. Abbiamo chiesto agli artisti di lavorare con lo spirito della città e soprattutto con diversi interlocutori.
Di fondamentale importanza è stato mettere in relazione diverse culture e competenze, creare lo spazio per una ricerca multidisciplinare. Infatti durante la Biennale non sono stati coinvolti solo artisti, ma anche professionisti del mondo accademico e scientifico, che hanno collaborato alla realizzazione di progetti trasversali. Una cosa è quando l’opera si imposta sulla ricerca, un’altra cosa è quando si imposta sul risultato. Alla fine, per me, ciò che è importante nell’opera è l’intero processo che l’ha generata. L’opera si genera nel processo, e quando gli artisti arrivano a sorprendersi del proprio lavoro vuol dire che si è già raggiunto un ottimo risultato. Il mio attuale sforzo, come direttore del Museo Nazionale di Belle Arti di Cuba, sta nel ripensare la funzione stessa del museo, nell’avere un’idea chiara sul tipo di storia e di relazioni che stiamo proponendo al pubblico. Il mio lavoro è un ripensare la funzione della collezione del museo e il modo in cui le opere vengono mostrate.
Questo tipo di atteggiamento e di riflessione dovrebbe essere in cima alle priorità degli addetti ai lavori e degli organizzatori di manifestazioni culturali come le biennali d’arte: interrogarsi e riflettere su quale modello si sta seguendo e applicando, poi interrogarsi su come interpretare il presente e come proiettarsi nel futuro.
SS: Ci sono dei linguaggi privilegiati in questo momento tra gli artisti cubani? Potresti segnalare alcuni nomi di artisti cubani che ritieni che il pubblico italiano dovrebbe conoscere?
J.F.T: Ci sono tanti artisti di talento a Cuba e non mi sento nella posizione di privilegiarne uno rispetto a un altro, rischierei di offendere qualcuno. A Cuba non ci sono linguaggi privilegiati rispetto ad altri, gli artisti lavorano in un clima ricco di relazioni e di diversità, e il contenitore di tutta questa ricchezza è l’Escuela Nacional de Arte.
Gli artisti cubani, nella fase di formazione e di studio, lavorano e sperimentano diversi linguaggi, come la pittura, la scultura, la performance. È importante che trovino il proprio mezzo espressivo attraverso questo tipo di approccio e di confronto. Non esiste un modo univoco di fare arte, ci sono molteplici possibilità. L’arte è un processo di investigazione e di ricerca, è una necessità. Sono convinto che la possibilità di creazione può seguire molteplici livelli. Questo accade perché le opere non sono atti totalmente fortuiti, non sono il frutto di un’illuminazione inattesa. Quando parliamo di opere non dobbiamo pensare a prodotti che hanno solo delle implicazioni pure: l’opera è parte delle sviluppo umano e intellettuale, è una forma di vita, un processo continuo di ricerca. La creazione è qualcosa di incantevole: qualcosa che sta sempre sul punto di accadere ma che non accade. Il poeta cubano José Lezama Lima sosteneva un’idea simile, ossia dell’arte come una creazione in continua attesa.
SS: Come è valutata l’arte cubana all’estero?
J.F.T: Gli artisti cubani sono esposti in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Italia. L’anno scorso, se ti ricordi, il PAC ha organizzato CUBA. Tatuare la storia, una ricognizione sull’arte contemporanea cubana. Anche in Cina, così come negli Stati Uniti, c’è molto interesse per il panorama artistico cubano. C’è molta energia a Cuba, e io credo che il contesto cubano generi negli artisti una forza per creare e pensare, per sostenere i conflitti e per riflettere su problematiche fondamentali. Sono del parere che dove non c’è conflitto non c’è niente: per questo ci si annoia. Quando visito l’Europa e le sue gallerie non posso non notare un tipo di atteggiamento high e cool; insomma, c’è una visione light dell’opera. Tutte le istituzioni hanno delle posizioni poco delineate, ma credo che sia arrivato il momento di ritrovare un sentimento di responsabilità sociale nei confronti delle persone, della cosa pubblica e dello stato.
Ovviamente non esistono delle istituzioni che ti permettono di fare quello che ti pare. La cosa più interessante, la sfida, è quella di impegnarsi nella negoziazione tra le necessità di un’istituzione e le necessità dell’artista; cercare di trovare il modo di lavorare insieme rispettando le diverse esigenze di ognuno. Non è mai facile camminare sul filo del rasoio, infatti la cosa più difficile è cercare di percorrere un sentiero comune, sapendo che è facile cadere – perché il concetto di gravità non vale solo per la fisica.
SS: L’arte contemporanea a Cuba è seguita solo dagli addetti ai lavori o c’è una partecipazione sociale più ampia?
J.F.T: La popolazione ha partecipato propositivamente alle iniziative culturali, dalla Biennale alle mostre monografiche fatte in collaborazione con Galleria Continua e il Museo Nazionale di Belle Arti dell’Avana, dedicate a Michelangelo Pistoletto e Anish Kapoor. Il museo si riempie di passanti, famiglie, studenti; non è un luogo limitato agli addetti ai lavori. La collezione stessa del museo è molto visitata, così come i laboratori e i progetti che il museo sviluppa per i bambini.
SS: Come sai ho avuto modo di conoscere l’architetto Vittorio Garatti e, durante gli incontri che abbiamo avuto per redigere l’intervista “Il Cosmonauta (Obbatalà)”, abbiamo parlato molto di Cuba, della rivoluzione e del governo di Fidel Castro. Spesso eravamo in disaccordo sull’eredità della rivoluzione, e più volte ci siamo confrontati sulla questione relativa alla libertà. Per Vittorio, quelle che io ritengo delle importanti violazioni della libertà individuale da parte del governo postrivoluzionario, sono invece l’esisto di una negoziazione: quella tra la libertà individuale e il bene collettivo. Cosa pensi al riguardo?
J.F.T: Dal mio punto di vista non esiste la libertà individuale, nel senso più ampio che l’implicazione di questo concetto può avere. Non c’è a Cuba così come non c’è da nessun’altra parte. Questo argomento viene affrontato nel libro di Jacques Rancière Il paradosso dell’arte politica. Il filosofo francese sostiene che la libertà individuale venga costantemente limitata dagli organi di polizia, così come da altri organi. Rancière sostiene che il potere esecutivo è un mezzo governativo per limitare la libertà, anche se paradossalmente dovrebbe essere un organo atto a garantirla. Un concetto simile è espresso anche ne Il Principe di Machiavelli. In ogni società basata su dei principi specifici – sia questa una società reale o ideale – si viene a creare un organo per far sì che questi principi vengano rispettati; è una cosa ciclica: un elemento genera l’altro. La libertà individuale è un cliché che si è stabilito a Cuba. Con questa mia affermazione non nego che la società cubana debba ancora migliorarsi su questo fronte; ad esempio, la stampa e il giornalismo dovrebbero essere più riflessivi e critici.
Molte cose nel mondo dell’arte dipendono dalla stampa, che spesso manipola le informazioni, perché non si pone come organo oggettivo. La stampa risponde sempre alla struttura del problema: esiste un grande monopolio ed esiste la censura; diciamo che è un organo fondamentale che detiene l’amministrazione delle informazioni. Ma questo aspetto è simile in ogni parte del mondo. I mezzi di comunicazione si pongono lo scopo di definire che cosa sia la verità, e alla fine la verità viene instaurata dal potere. Non credo che ci siano Paesi nella posizione di poter impartire delle lezioni a Cuba, e credo che riflettere sulla relazione che vi è tra lo Stato e l’individuo sia un problema mondiale e non solo cubano.
SS: In un’intervista fatta a Martin Guevara Duarte, il nipote di Ernesto Che Guevara, sono emerse delle questioni simili a quelle che stiamo affrontando noi adesso. Alla medesima domanda che ti ho appena posto – quella sulla libertà individuale e sul bene collettivo – Martin ha risposto con un detto cubano emblematico: “Ci hanno insegnato a leggere e adesso ci dicono cosa leggere”. Il nodo fondamentale è racchiuso proprio qui. Le accuse che vengono molte volte mosse al governo postrivoluzionario dipendo proprio dal fatto che Cuba, attraverso la rivoluzione, ha lottato per la libertà. In un certo senso il governo postrivoluzionario è stato accusato proprio perché si pensava dovesse costituire un modello internazionale, un simbolo concreto della lotta per la libertà.
J.F.T: Capisco bene il tuo ragionamento. Anche io mi rendo conto che per la sua particolare storia Cuba è diventata una referenza, e molti pensano che dovrebbe essere un modello. Ciò non toglie che sia sbagliato idealizzare un Paese. La Cuba postrivoluzionaria ha ancora molte opere da portare a termine, ma non penso sarà possibile realizzarle tutte. Devi tenere presente che una cosa è il modello che si vuole raggiungere, un’altra cosa sono i mezzi che si hanno a disposizione. Cuba ha vissuto sotto una pressione straordinaria: è un Paese che ha avuto praticamente un’economia e una struttura basate sulla sopravvivenza. Si tratta di una piccola isola che ha assunto, a livello mondiale, un significato troppo al di sopra di se stessa. Ogni cosa che abbiamo raggiunto – soprattutto rispetto al punto da dove siamo partiti – ci è costato tanto lavoro. Ci sono state e ci sono tuttora delle condizioni materiali difficili, ma la cosa che la società civile cubana ritiene fondamentale è quella di continuare a mantenere l’equità sociale, soprattutto negli aspetti della vita più basilari e fondamentali, come ad esempio il sistema sanitario e l’istruzione. Ovviamente qualcuno si dà per vinto e non tutti si fanno carico delle responsabilità statali e civiche che la rivoluzione implica tuttora. Fino ad oggi Cuba ha vissuto in un contesto a lei ostile; basti ricordare l’embargo commerciale, economico e finanziario imposto dagli Stati Uniti all’indomani della rivoluzione. E nonostante le pesanti difficoltà sostenute, Cuba ha resistito. Questo, dal mio punto di vista, è uno dei risultati più significativi. Gli obiettivi che abbiamo raggiunto sono tanti: il livello di partecipazione popolare nei processi politici e nei meccanismi stessi della struttura statale è altissimo, i cittadini hanno molta consapevolezza di cosa significhi e sono capaci di autoanalisi, anche quando questa gioca a loro sfavore. C’è stato e continua ad esserci un importante processo di trasformazione. La rivoluzione di cui stiamo parlando si basa sul concetto trockiano di rivoluzione permanente.
SS: Capisco quello che mi stai dicendo, e osservando la situazione sociale che vi è in tanti Paesi sudamericani, dove il concetto di equità sociale è difficilmente applicabile, mi rendo conto che una lettura lucida e non ideologica della questione cubana deve partire proprio da questo confronto. Tra i Paesi del Sud America, Cuba è tra quelli in cui la qualità della vita è più alta.
J.F.T: Esattamente. Molti Paesi latinoamericani sono destabilizzati, versano in terribili condizioni e affrontano delle problematiche impensabili per noi a Cuba. Guarda cosa accade oggi in Honduras. Molti Paesi del Sud America hanno enormi problemi legati alla corruzione, alcuni di questi non hanno condizioni politiche stabili e spesso vengono governati in assenza di un presidente.
SS: Due anni fa il Centre Pompidou ha consacrato un’ importante retrospettiva a Wilfredo Lam, uno degli artisti più importanti del Novecento cubano. Tu che per anni sei stato il direttore del Centro de Arte Contemporáneo Wifredo Lam, contempli l’ipotesi di organizzare in futuro una sua mostra qui in Italia?
J.F.T: Certamente, mi piacerebbe far conoscere a un pubblico più vasto questo straordinario pittore cubano, ma nel momento in cui dovessi portare qualcosa di così grande in Italia, cercherei uno spazio e delle condizioni adeguati.
SS: Tra le più celebri citazioni di Dostoevskij vi è quella che l’autore fa pronunciare al principe Myškin nel romanzo “L’Idiota”. Mi riferisco a “la bellezza salverà il mondo”. Per te può bastare la bellezza per salvare il mondo?
J.F.T: La bellezza è un concetto relativo. È interessante come questo concetto abbia delle relazioni con il mondo giuridico e le leggi. Sia la bellezza sia la giustizia sono relative e rispondono a regole e canoni specifici, propri di determinati contesti e periodi storici.
SS: Ma se spostassimo la riflessione sul concetto di “kalokagathìa”, ovvero sull’equiparazione platonica tra il Buono, il Bello e il Vero, cosa mi risponderesti?
J.F.T: Chiaro, quello di cui parli tu è un ideale greco-romano, ma sono cose che evidentemente funzionano e hanno funzionato per una determinata cultura. Se adesso dovessimo parlare concretamente, posso dirti che nella realtà esistono persone che non hanno niente a che vedere con il prototipo di uomo o donna proposto dal modello e dal canone occidentali. Un ideale che adesso ci porta a pensare che dobbiamo essere tutti belli e non dobbiamo avere neanche una ruga. La realtà fisica dei corpi non rispecchia affatto quella che viene proposta attraverso le star del cinema. Il modello occidentale ha definito la bellezza come una differenza, la bellezza è stata sempre paventata e strumentalizzata. Per tornare a Dostoevskij, in Delitto e Castigo Raskol’nikov giustifica il suo assassinio perché riteneva che la sua vittima fosse inutile alla società. In modo simile i grandi personaggi della storia mondiale, come ad esempio Napoleone Bonaparte o Alessandro Magno, hanno commesso delle stragi in nome di un bene più grande, in favore di importanti trasformazioni politiche e sociali. Le grandi guerre, le grandi battaglie, le crociate sono diventate momenti storici trascendenti rispetto al mondo, e vengono lette e interpretate come avvenimenti epici e non come assassinii di massa. Per le grandi personalità che hanno condotto queste battaglie non esiste il diritto: sono al di là della giustizia, anche se hanno commesso dei crimini.
SS: È la relatività dei valori…
J.F.T: Sì, la relatività dei valori…