Intervista a Agostino Ferrari. Articolo di Simona Squadrito
Agostino Ferrari si raccontaintervista di Simona Squadrito
Simona Squadrito: Per iniziare questa intervista mi piacerebbe partire dall’esperienza legata al Cenobio e dalla nascita della scrittura non significante.
Agostino Ferrari: Nel 1962, nasce il gruppo Cenobio, a cui hanno aderito anche Ugo La Pietra, Ettore Sordini, Angelo Verga e Arturo Vermi. Solo dopo qualche anno i graffi che facevo sulla tela, tipici di quel periodo, sono diventati delle scritture, una sorta di racconto all’interno di queste tavole, appunto una scrittura non significante ma che della scrittura evoca le funzioni.
Io lavoravo a stretto contatto con Vermi ed a entrambi stava stretta la pittura informale, invece a Verga e a Sordini, che erano più avanti di noi dal punto di vista teorico, stava stretta la pittura di Piero Manzoni, anzi la non-pittura di Manzoni. A quel punto ci siamo incontrati e abbiamo cercato di trovare una ricerca comune, quella appunto legata al segno.
Io mi fermo prima che il mio segno diventi un simbolo. La mia pittura come ti ho accennato è qualcosa che evoca la scrittura simbolica. Per scrittura simbolica intendo un alfabeto vero e proprio, l’interesse per le parole diventerà il campo della poesia visiva. Noi del Cenobio facevamo dei segni primordiali.
Nel ’64 andai per due anni a New York, era il momento d’oro della Pop art. Al ritorno dal mio viaggio di studi il mio segno era cambiato, si era fatto più fisico.
S.S: Cosa intendi quando parli di segno fisico?
A.G: Provo a spiegarmi.
Attraverso il Teatro del Segno, il mio segno assume tre dimensioni.
Un segno è dato creando un’incisione profonda sulla superficie, un altro è un segno plastico che esce letteralmente dal quadro e il terzo è il segno dipinto. Con Il Teatro del Segno ho selezionato in pratica tre modi espressivi del segno: partivo con un segno dipinto, poi il segno usciva e successivamente, una volta intagliato nel supporto, diventava la memoria del segno, la traccia che ricordava il segno precedente. Il Teatro del Segno, a mio avviso, rappresenta il mio periodo più importante, mentre il Cenobio ha rappresentato un momento di formazione, dove tutti insieme avevamo come presupposto quello di fare una ricerca segnica, mantenendo ognuno il proprio linguaggio.
Durante i primi anni ’60, infatti, ci sembrava opportuno fare questo tipo di ricerca, per allontanarci dalle influenze dalle ricerche di Manzoni che voleva azzerare l’immagine. Noi, invece, volevamo difendere la pittura, ma non attraverso le ricerche legate all’informale, che all’epoca era ormai diventata una ricerca accademica. La nostra difesa della pittura partiva dal minimo segno possibile.
S.S: Possiamo anche dire che eravate alla ricerca di un grado zero della pittura
A.F: Esatto, brava, proprio il grado zero della pittura!
S.S: Dopo la ricerca legata al Teatro del Segno tra il ’67 e il ’69 si occupa di forme totali, mentre durante tutta la prima metà degli anni ’70, cercherà di mettere in relazione il segno, la forma e il colore.
A.F: Le ricerca sulla Forma Totale fu presentata da Lucio Fontana. Per farla breve, con le forme totali il tema era un segno che determinava successivamente una forma. Dopo qualche anno, come hai già anticipato, ho intrapreso una ricerca per tentare di stabilire il rapporto che esiste tra un segno, una forma e un colore, interpretati come elementi separati, ma ad ogni forma corrispondeva un determinato colore. Dopo questa ricerca ho sentito la necessità di realizzare un’opera che contenesse, almeno sul piano simbolico, tutte le diverse fasi, arrivo a concepire un lavoro che ho intitolato Autoritratto. Si tratta di una serie di quattordici pannelli in legno, ognuno di due metri per uno e mezzo, messi in sequenza a formare una spirale oppure semplicemente accostati in modo da creare uno spazio percorribile di 24 metri.
S.S: Cosa intende per autoritratto?
A.F: E’ l’autoritratto di chi percorre l’opera.
S.S: Quando parla di corrispondenze tra un determinato colore e una forma cosa intende per l’esattezza, e sopratutto come è arrivato a trovare queste corrispondenze?
A.F.: Tutta la ricerca sul colore e sulle corrispondenze è durata cinque anni. C’è un motivo, un’indagine psicologica che porta – per fare un esempio – a definire il colore viola come un colore prenatale e legato al desidero, mentre il blu è una coscienza che esiste, rappresenta sia la verticalità del cielo che l’orizzontalità dell’orizzonte, il blu rappresenta un’energia potenziale, il verde invece rappresenta la germinazione. Questi colori con le rispettive forme rappresentano il mio alfabeto, per me parlare di giallo o della forma triangolare rappresentava la stessa cosa.
S.S: Anche nei lavori successivi a questa ricerca sull’alfabeto ha tenuto a mente queste corrispondenze tra forma e colore?
A.F: Non sempre, ad esempi, per me il rosso ha sempre il valore dell’azione ma non è più legato a questa ricerca tra colore e forma.
S.S: Perché nella seconda metà degli anni ’70 ritorna a lavorare sul Teatro del Segno?
A.F: In quel periodo stavo provando a portare il segno verso l’arte programmata, perché volevo produrre contaminazioni.
SS: In queste opere il ruolo dell’ombra che si proietta sulla superficie è fondamentale e sopratutto cambia in funzione della luce e della posizione dell’osservatore.
A.F: Anche per questo motivo si chiama Teatro del Segno, perché il segno cambia continuamente, girando e andando in tutte le direzioni.
S.S: Siamo negli anni ’80 quando lei inizia a utilizzare la sabbia per dipingere i suoi segni. Perché ha scelto di usare questo materiale?
A.F: Questa sabbia nera che tuttora uso per dipingere possiede una teatralità che il colore normale non ha. La sabbia brilla, ha il silicio dentro e vibra, e il segno predomina nel quadro in maniera totale. A me della pittura interessa che abbia anche qualcosa di fisico, questa fisicità che poi io ho tradotto con il termine teatro.
S.S: Con le opere della serie Oltre la Soglia affronta forse la questione più importate di tutta la sua poetica, ovvero quella legata al nero, inoltre affronta nel lavoro il rapporto con un suo grande maestro. Mi riferisco a Lucio Fontana.
A.F: Con Oltre la Soglia ho voluto affrontare il problema di Fontana, che secondo me è un problema legato al colore nero. Fontana, come sai, prende il supporto, la tela e la taglia, a quel punto scopre che aldilà della superficie del quadro c’è un vuoto, un nero, ovviamente la questione è relativa anche all’utilizzo del supporto come matrice, l’elemento oggettuale che rappresenta la sua realtà. Con Fontana il supporto dichiara la sua libertà di andare nel suo altro spazio.
Per me Fontana è stato un maestro di vita, è stato un artista molto amato, perché dava la libertà ai giovani di pensare, di trovare la propria strada e di sperimentare. Ha messo il pittore nella condizione di fare quello che finalmente poteva sentirsi di fare.
La mia attuale ricerca pittorica, Interno e Esterno, invece, vuole rappresentare la nascita di un segno in modo molto scenografico e plastico. Tutti i segni che ho fatto per 50 anni non avevano un’origine ma sono il desiderio di rappresentare un segno. Solo quando ho cominciato ad affrontare Fontana ho capito che l’origine dei miei segni era nel nero, il mio profondo inconscio, il nero che immagino alla fine dell’universo. Con Interno e Esterno mi sono sentito in pace con me stesso perché ho trovato l’origine del mio lavoro e quindi non ho più motivi di andare a cercare giustificazioni psicologiche sulla mia esistenza: ho trovato questa origine.
S.S: Vuole raccontarmi la sua prima esperienza con il Premio Internazionale Bugatti-Segantini?
A.F. : Ho partecipato al premio nel 1962 insieme a Verga. Vittorio Viviani frequentava insieme a noi il bar Jamaica, veniva li a parlare di arte e a giocare a carte, così ci ha invitati tutti a Nova Milanese. Allora il premio era ancora legato alla pittura estemporanea, ci andavano tutti i pittori di Milano e copiavano il paesaggio. Noi non abbiamo copiato un paesaggio, siamo andati li con le nostre tele e abbiamo fatto qualche pasticcio. Noi guardavamo i cespugli, abbiamo consegnato quattro quadri, opere così. All’epoca non era ancora nato il Cenobio ma avevamo in testa delle cose che con la pittura en plein air non c’entravano, diciamo che siamo andati a fare una gita in campagna, una cosa divertente. Nessuno di noi vinse, ma mi ricordo che ci fu un grosso litigio, bello grosso. Quando sono stati premiati certi piuttosto che certi altri è venuto fuori un disastro, c’era chi contestava.
S.S: Come lei già sa quest’anno il Premio Internazionale Bugatti-Segantini propone una tematica di riflessione, quella dell’utopia. Questo termine le dice qualcosa?
A.F. : Il mio lavoro sul segno è utopia, perché rappresenta una realtà da me sognata e immaginata. Il mio lavoro consiste nel dare al segno una vita parallela, e in questa vita del segno trovo anche l’uomo.