Testo e curatela di Gabriele Tosi —
“Hai mai conosciuto dei minatori? Lavorano al buio, vedono tutto”
“Open Wide, O Earth” Ep.3 S.1 di Chernobyl. Regia Johan Renck, Sceneggiatura Craig Mazin. HBO, 20 Maggio 2019. Trasmissione televisiva.
Sheets for a box di Filippo Tappi è una raccolta di documenti ricondotti allo stato prototipale dell’appunto, della nota o dell’inedito. Nondimeno sono contenuti finali e specifici, che mantengono radici nelle diverse storie da cui sono stati strappati, pur alludendo a una qualche idea di contestualità. È l’opera stessa a annunciare di sé una imprecisata condizione di “non narrazione ma narrazione”, confermata – impavidamente – in alcune pagine dove soltanto la numerazione del piede è presente.
Nel titolo, didascalico ed escatologico, è chiarita la proposta autoriale (e quindi significante?) di una destinazione d’uso della cartella d’artista: da stampare e collocare, con il favore del pubblico, in un contenitore qualunque. Il lavoro sarebbe quindi completo soltanto quando installato in uno “scrigno” di fortuna, vuoto o quantomeno libero. E magari in esso guastato o dimenticato, seguendo alla lettera il suggerimento elargito dall’opera in un passo sull’immagine come campionessa dell’oblio.
Sheets for a box esiste quindi solo come versione possibile. La sua vitalità non può prescindere dalla quantità di esistenza, lavoro e creatività richiesta in negativo per acquisirla (scaricarla), per averla tra le mani (stamparla) e per possederla (collocarla). L’artista stesso fornisce alcune prime prove (ancora una volta dei prototipi definitivi) dell’opera nella ritualità del quotidiano: sono le documentazioni pubblicate in questa pagina con il linguaggio delle exhibition view.
Guardando gli allestimenti dell’artista sembra che l’unico movente logico del possesso sia una possibilità offerta dal mondo e confusa con un desiderio di scoperta interiore. L’inganno metafisico è ben raccontato dall’opera quando mostra una rudimentale trappola per mosche che si risolve banalmente con un piccolo foro praticato in una bottiglia di plastica vuota. In questa accezione, gli argomenti dell’opera si dichiarano sette del visivo, cioè come luoghi e ragionamenti di facile accesso da cui è molto difficile tornare.
Ma con il supporto sodale e sociale espresso da Sol LeWitt in una cartolina a Eva Hesse, l’opera tenta di convincere il potenziale possessore a proposito dell’importanza di uno spazio per l’imprevisto, pur ricordando precauzionalmente come le immagini guardino gli altri con occhi da predatore: uno dei documenti più autoriali della raccolta è infatti un “occhiello” di lupo che risplende nel buio bianco della pagina.
Non sembra trattarsi, comunque, di ricambiare lo sguardo selvatico della bestia. La volontà autoriale dell’artista – che fa propria in questo senso una citazione di Felix Gonzales Torres sulla labilità dell’atto – indica le immagini come talismani da amare privatamente in pubblico, da ostentare di nascosto.
I fogli offerti da Tappi vogliono cioè lavorare sotterranei nelle vite d’ignoti, vivendo alieni nell’intimità di ospiti più o meno senzienti e sempre oscurate dalla vi(s)ta di tutti i giorni.
Proprio il suggerimento della condizione in-esposta di un foglio abbandonato in una cartella o in un libro, e ritrovato forse anni dopo, permette all’artista di trovarsi nella invidiabile irresponsabilità di affrontare argomenti metafisici sul terreno dell’immanenza costruita a tavolino, della soluzione poverissima di una stampa domestica. Le iperboli di alcuni passaggi dell’opera volano quindi su argomenti liminali del visivo: fra questi la rappresentazione del rumore e della voce di scena all’interno dell’immagine; la rappresentazione dell’invisibilità attraverso una radiazione o una vibrazione (plettro solare). Vanno in questo senso, ad esempio, le tre fotografie di altrettante esplosioni in un set cinematografico d’oriente, le stelle copiate da un incisione di Durer, l’elenco dei colori di un notturno pittorico che perdono il nome della cromia ma mantengono l’aggettivo.
Le immagini proposte da Tappi in Sheets for a box sono pensate per lavorare nella testa da dentro una scatola da cui si fanno più chiare ma meno fedeli. L’opera non costituisce pertanto un’esperienza di visione diretta, ma una elaborazione mnemonica di post-visione attraverso cui raggiungere uno stato (magico) di previsione. La scommessa giocata da un’operazione così tragicomica sul senso dell’arte, che per certi versi mi ricorda il foglio della barzelletta letale dei Monty Python, è proposta non a caso in uno scenario attuale diverso dal solito. Nella speranza che attraverso i fori che queste immagini custodiscono si possa comicamente sbirciare in territori felici, ma nella consapevolezza che guardare il futuro attraverso le immagini può portare bene ma può anche portare male.
Link per il download della cartella/mostra http://tiny.cc/sheetforabox_tappi
Tradotto dall’inglese Doggerel è una poesia irregolare nel ritmo e nella rima, spesso deliberatamente burlona o comica. In questo periodo difficile, anche un po’ triste, in cui risulta difficile collaborare o frequentarsi, la redazione di ATPdiary insieme a REPLICA – l’archivio italiano del libro d’artista – ha pensato di invitare un gruppo di curatori a pensare un progetto espositivo in un luogo impensabile e in forme impensabili.
Ad ogni curatore abbiamo richiesto di proporre una “mostra editoriale”, un sintetico testo critico sulla scelta dello spazio, delle opere, degli eventuali libri d’artista o pubblicazioni indipendenti che fungano da supporto critico documentativo del progetto.
L’invito che abbiamo proposto è stato quello di impostare un’indagine sullo spazio – reale e virtuale – utilizzando immagini di opere, pagine di libri, luoghi impensabili o immaginati.