Fonte: atpdiary.com
Renata Boero attualmente in mostra con un’importante personale, “KROMO-KRONOS”, al Museo del Novecento curata da Anna Danteri e Iolanda Ratti è la vincitrice del Premio alla Carriera dell’edizione 2019 del Premio Internazionale Bugatti Segantini.
L’artista genovese inizia la sua carriera da giovanissima e da subito attira la simpatia della critica. Importati critici d’arte come Filiberto Menna, Tommaso Trini, Achille Bonito Oliva e molti altri ancora hanno seguito la sua ricerca con grande entusiasmo e curiosità, consacrando Renata Boero nel novero delle artiste più significative del secondo Novecento. Recentemente la sua ricerca ha suscitato un rinnovato interesse: la sensibilità ai materiali, al colore e alla natura sono certamente gli elementi della sue ricerca che oggi vengono osservati con grande attenzione.
Simona Squadrito: Ciao Renata, vorrei cominciare questa nostra chiacchierata partendo da una data significativa, il 1959, ossia l’anno inaugurale del Premio Bice-Bugatti, che oggi compie sessant’anni e che ti vede vincitrice. Anche per te il 1959 segna una svolta significativa; infatti quell’anno partecipasti per la prima volta a una manifestazione d’arte di altissimo livello, la Quadriennale di Roma. Conosco a grandi linee la particolare vicenda che ti portò a Roma, ma mi piacerebbe che me la raccontassi tu stessa. Come sei riuscita così giovane a parteciparvi?
Renata Boero: In quel periodo partecipavo a tanti premi di pittura e li vincevo anche; ogni volta che partecipavo tornavo a casa con un premio. Allora c’erano le estemporanee, che oggi si chiamano residenze. Gli artisti venivano invitati per una settimana nel luogo di residenza, dove si lavorava e si produceva un’opera con cui poi si partecipava all’estemporanea. Quell’anno partecipai a un premio di pittura a Varigotti, una località dove i genovesi abitualmente vanno a balneare. Una mattina, durante i giorni di residenza, decisi di andare a dipingere a Cervo, un paese limitrofo a Varigotti. Volevo dipingere una veduta dall’alto del paese. Salii su per la montagna con il mio cavalletto fino a che non trovai una bella veduta nella vallata prospiciente, che decisi di dipingere. Quel giorno c’era un vento tremendo, che mi impediva di fissare la tela al cavalletto; dopo svariati tentativi mollai il cavalletto e posai la tela direttamente a terra. Avevo di fronte a me un bellissimo panorama, ma l’occhio mi cadde giù, sulla terra, che per istinto incominciai a dipingere.
S.S.: Quindi, rispetto a come si è evoluta in seguito la tua ricerca, questo è stato un momento altamente significativo, direi quasi epifanico. Per la prima volta il tuo sguardo e la tua attenzione si rivolgono direttamente alla terra nuda.
R.B.: Sì, fu una strana coincidenza. A me piace quando le cose si incontrano senza la fatica della scelta – quando le cose semplicemente accadono. Vedevo le radici delle piante e le seguivo con lo sguardo: in quel momento mi innamorai della terra. Vidi arrivare un signore anziano con un bastone: sembrava incuriosito da ciò che stavo facendo, mi osservava. Io ero abituata a essere osservata mentre dipingevo, c’era sempre qualcuno che mi guardava quando lavoravo. Quel anziano signore mi domandò come mai stavo lì a dipingere a carponi. Gli spiegai della mia difficoltà a fissare il cavalletto per colpa del vento, e poi ricordo che dissi una cosa che lo colpì. Indicai il paesaggio all’orizzonte e dissi che era laggiù, lontano, mentre la terra mi era più vicina; c’erano poi tutti quegli animaletti, le piccole piante, i fili d’erba, una sorta di microcosmo. Chiacchierammo un po’. Per me era abbastanza normale, mi fermavo sempre a parlare con la gente che incontravo nei luoghi dove andavo a dipingere; era una cosa che mi piaceva fare. Soprattutto amavo molto scambiare delle parole con tutte quelle persone che in qualche modo erano legate al tema su cui stavo lavorando. A un certo punto quell’uomo mi indicò un punto all’orizzonte: si trattava della sua casa. Mi consigliò di provare comunque a dipingere il paesaggio e poi di inviare la mia candidatura alla Quadriennale di Roma. Non conoscevo ancora quel premio, la cosa mi incuriosì e cercai di avere quante più informazioni possibili. Lui mi scrisse l’indirizzo su un foglio e mi spiegò che si trattava di un concorso molto importante; mi disse anche che era fondamentale misurarsi con altri artisti. Poi ci salutammo e io continuai a dipingere. Mi ricordo che mi sentivo come sospesa, era una giornata strana, il vento mi frastornava, li per lì l’ho vissuta così, senza capire ricordo l’eccitazione che mi prese quando realizzai che quell’uomo era Felice Casorati. Lui si dimostrò molto simpatico e cordiale, me lo ricordo molto bene, e il ricordo che ho di lui è diverso dalle sue immagini che ho trovato sui libri.
S.S.: Suppongo tu ti sia sentita, oltre che eccitata, molto felice.
R.B.: Sì,assolutamente. Mi ricordo anche che feci un fioretto: se mi avessero preso al concorso non avrei mangiato dolci per una settimana, e fu così; dopo la conferma della mia partecipazione non mangiai dolci. L’esperienza della Quadriennale è stata determinante, da quel momento è cambiato il mio rapporto con il lavoro. Io avevo una cultura da museo. La mia famiglia mi ha permesso di viaggiare per tutta l’Europa; avevo la sensazione che ogni museo fosse mio, così come le chiese, che non frequentavo per pregare, ma per vedere le opere al loro interno.
Quando vidi il mio dipinto esposto al Palazzo delle Esposizioni mi resi conto che il mio lavoro si stava confrontando con quello di altri artisti contemporanei e su ciò che stava succedendo nel mondo. È stato un momento decisivo per me e da quel giorno il lavoro è diventato un viaggiatore autonomo dei miei pensieri.
S.S.:Dove si trova adesso quel quadro?
R.B.: Non lo so. All’epoca non davo importanza a quei lavori: per me era tutto sperimentale, era tutto rivolto a conquistare un pensiero, a indagare la natura delle cose, cercare di capirle, provare a conoscerle. Non seguivo l’andazzo dell’opera; per me rappresentava solo una fase, dopodiché cominciava sempre una fase nuova, un’altra conoscenza. Io lavoravo per conoscere, per capire, non per la carriera; non è un pensiero che mi appartiene come non mi apparteneva allora.. Non faccio mai un quadro uguale a un altro: sperimento, vado avanti, lavoro per curiosità. La mia è una scelta politica, non sono feticista nei confronti dell’opera in sé, non ho questa forma di accudimento e accanimento nei confronti dell’opera – a me interessa il percorso. È un po’ come quando si cammina per strada e si inizia a imboccare una via dopo l’altra. Ho perso le tracce di tanti lavori.
S.S.: Quell’anno la Quadriennale fu scossa da una grossa polemica: artisti come Emilio Vedova, Lucio Fontana, Piero Dorazio, Toti Scialoja, Leonardi Leoncillo e altri ancora decisero di non partecipare; si opponevano all’atteggiamento ostile nei confronti dell’arte astratta di Fortunato Bellonzi, il segretario generale della Quadriennale. La situazione artistica italiana risentiva ancora di una polemica – più che estetica, ideologia e politica – avviata a partire dal dopoguerra. Mi riferisco allo scontro tra artisti figurativi e artisti astratti, divisione che solo in Italia prese i toni di una lotta politica tra artisti di sinistra e artisti non di sinistra. Tu hai percepito questo scontro?
R.B.: No, non l’ho percepito. Ero una giovane ragazza con idee di sinistra. Ricordo che curavo, insieme ai miei compagni di liceo, un giornalino di sinistra, dove scrivevo di temi sociali. Ma ero di sinistra come lo sono un po’ tutti gli studenti, non ero un’attivista, non facevo politica in senso stretto. Io faccio politica con il mio lavoro, in modo soft, cercando di far capire le mie idee. Tornata a Genova dopo anni vissuti in Svizzera, dove ho conseguito il Bac, decisi di voler studiare con Emilio Scanavino, artista e maestro di cui ammiravo il lavoro; aveva un modo di disegnare che mi piaceva molto. Lui sarebbe rimasto a insegnare al liceo Barabino ancora un paio di anni, così decisi di fare in solo in due, i quattro anni di liceo, perché in fondo mi interessava solo studiare con lui.
S.S.: Mi sembra di capire che hai sempre avuto le idee molto chiare.
R.B.: Sì, è così. Da quando ho memoria mi rivedo a disegnare. Iscrivermi al liceo artistico non è stata una scelta tra le tante, ma un’idea precisa e chiara; sentivo la necessità di approfondire quello che già facevo, volevo dare una struttura al mio lavoro. Decisi infine di iscrivermi al biennio propedeutico per poter poi accedere alla facoltà di architettura che frequentai per un paio d’anni e poi abbandonai. Ho studiato molto disegno e progettazione, ma non ero portata per studiare analisi e matematica.
S.S.: Cosa dipingevi in quel periodo?
R.B.: Dipingevo paesaggi. Infatti l’opera che fu selezionata per la Quadriennale è proprio un paesaggio. Gli anni passati a studiare con Scanavino sono stati fondamentali. Da lì il mio segno è cambiato. Avevo un segno particolare che lui chiamava “elettrico”.
S.S.: Quando la critica riflette e interpreta il tuo lavoro, sottolinea continuamente l’aspetto che lo lega alla natura. È stato scritto che « appresenti la natura con la natura stessa». Tu stessa in un’intervista hai dichiarato: «È la natura stessa che mi suggerisce di seguire gli effetti che in essa avvengono, e molto è diventato pittura».
Negli ultimi anni vi è un rinnovato e forte interesse – da parte di artisti, curatori e critici –per la tua ricerca; oltre che per gli aspetti formali, estetici – se vuoi anche filosofici – del tuo lavoro, tutto questo interesse è anche stimolato dalla sua scottante, forse anche drammatica, attualità. Il tuo lavoro ci invita a compiere una riflessione profonda sull’essenza della natura. Matrigna per Giacomo Leopardi e oggi vittima delle nostre violenze. Credi che la natura o il rapporto con essa sia cambiato, così come è cambiato lo sguardo che tu le rivolgi? Secondo te l’uomo deve recuperare o rifondare il suo rapporto con la natura?
R.B.: In questi ultimi anni una grande attenzione all’environement ed una forte coscienza ecologica si è andata affermando, soprattutto nelle nuove generazioni. Accanto a questo sentimento è andata via via affermandosi una sorta hubris dettata dalle straordinarie possibilità che la tecnica ci mette a disposizione. La possibiltà di giocare al piccolo chimico, anche con gli aspetti più delicati e inviolabili della vita, hanno alterato di molto la nostra percezione di quello che si intende per naturale. L’uomo è sostanzialmente un essere culturale, con il dissolversi del sentimento del sacro ha smarrito l’ancoraggio metafisico che lo legava al mondo e quindi alla natura. Difficile ristabilire un equilibrio.
S.S: La tua ricerca è anche un lavoro in e sulla trasformazione: da una parte ti muovi liberamente dentro il lavoro stesso, all’interno delle diverse serie di opere e all’interno di un tempo espanso e ciclico; contemporaneamente, l’utilizzo specifico di alcuni materiali rende le tue opere suscettibili di una continua trasformazione. Il tempo è un elemento importante della tua ricerca: tempo dilatato, tempo grande e tempo circolare, il tempo delle cose. In conversazione con Maria Petrosino racconti: «E poi mi interessava il tempo. L’idea che la natura è legata alla fisicità e al tempo che scorre. Ritornava l’idea della sequenza che da ragazzina avevo scoperto con Antelami». (da “Raccontare, raccontarsi. Conversazione con Maria Petrosino”). Un tempo, quello delle tue opere, che si posiziona in opposizione al tempo del presente e dell’immediato. Oggi il tempo è vissuto nel suo attimo: siamo nell’epoca della perpetua emergenza, siamo come inchiodati in un eterno presente.
R.B.: È verissimo, questo è il sintomo di una superficialità dilagante, una sorta di denominatore comune, il pensiero dell’immediato, rimaniamo spesso inchiodati all’oggi, al qui e ora. Anche l’attualità politica è legata all’istantaneità, manca una visone più ampia, una visione future delle cose.
S.S.: Abbiamo parlato di natura, di tempo, ma esistono altri elementi e riflessioni messe in campo dal tuo lavoro. È molto forte l’elemento del rituale, l’interesse per l’antropologia, per la magia; sembrano tutte riflessioni e suggestioni attinte dal mondo junghiano e da una lettura attenta di Lévi-Strauss.
R.B.: Certo, sono stati e sono tuttora miei riferimenti.
S.S.: Se mi è più chiara la connessione che ci può essere tra il tuo lavoro e le ricerche di Jung e Lévi-Strauss, meno evidente è la connessione con Simone Weil. Nel 2009, in occasione della 53ª Biennale d’arte di Venezia, partecipasti a “Venezia Salva. Omaggio a Simone Weil” e rendesti omaggio alla filosofa francese con un libro d’artista che raccoglie alcune delle tue “Germinazioni”. Di cosa si tratta esattamente?
R.B.: La sfida era restituire la poesia del racconto della Weil nel quale la bellezza trionfa sulla violenza del potere.
S.S.: Per omaggiare Simone Weil hai prodotto materialmente un libro, ma il tema del libro viene costantemente preso in considerazione anche quando si riflette sulla tua pittura. È stato scritto dalla critica che il libro, con le sue pieghe, è all’origine dei tuoi lavori. Il libro, a mio avviso, è un paradigma nella tua ricerca, come esempio di un metodo di lavoro, di una forma di fruizione, di lettura e creazione dell’opera legata a una temporalità scandita e a un’idea di parti che costituiscono un tutto. Ti ritrovi in questa lettura? Cosa intendi quando dici di ragionare sul libro nel tuo lavoro?
R.B.: Quando ragiono sul libro non intendo mai il libro come oggetto, come per esempio il libro d’artista, ma appunto – come hai detto tu – mi riferisco a un metodo, a un sistema di lavoro. Il mio lavoro si sviluppa pagina dopo pagina, racconto dopo racconto, e ogni pagina non è che una parte di un unico insieme, di un grande e unico volume. Il mio lavoro è un grande libro, un racconto della vita, è l’unità di una moltitudine; ogni pagina di un libro, così come ogni opera della mia ricerca, è realizzata con altri elementi; niente è isolato, indipendente, ma tutto si ha nella relazione reciproca tra le parti.
S.S.: Chi sono gli artisti che hai guardato con più attenzione, con cui ti senti più affine?
R.B.: Non saprei, posso dirti gli artisti che in qualche modo ho guardato con passione e interesse, l’Antelami o i mosaici bizantini di Santa Apollinare in Classe, piuttosto che la metafisica del grande Giorgio de Chirico.
S.S.: Tra tutti i professionisti che hanno scritto sulla tua ricerca esiste un critico che sia riuscito a comprende a pieno e a tradurre in parole il tuo lavoro?
R.B.: È difficile che un singolo critico possa tradurre in parole il lavoro di un artista. Per quanto mi riguarda, sento molto affini i miei critici storici, quelli che hanno iniziato a dialogare e a interpretare il mio lavoro già dagli anni ’70, come per esempio Filiberto Menna e Paolo Fossati e poi naturalmente Achille Bonito Oliva e Tommaso Trini. Tutti, in qualche modo, hanno contribuito a chiarire o sottolineare alcuni aspetti del mio lavoro, si tratta dei miei compagni di strada. Adesso che c’è un nuovo interesse per il mio lavoro, e ciò mi rende felice, ci sono nuove figure che si stanno avvicinando in modo intelligente e stimolante alla mia ricerca, come ad esempio Anna Danieri o Jolanda Ratti.
S.S.: Chi sono gli artisti della tua generazione con cui hai lavorato maggiormente e stretto più legami?
R.B.: Sicuramente Giuseppe Chiari e Giorgio Griffa, Marco Gastini ma diciamo che sono stata vicina a tutto il gruppo di torinesi.
S.S.: Che rapporto hai avuto con l’arte povera e con il gruppo degli artisti poveristi?
R.B.: Come ormai noto in quel tempo il mondo si andava ribaltando e tutti respiravamo e partecipavamo di quell’euforia libertaria. Detto questi i nostri percorsi non si sono incrociati.
S.S.: A una giusta distanza storica rispetto all’esplosione dell’arte povera e della pittura analitica e concettuale, guardando il tuo lavoro mi sembra che tu abbia riunito questi diversi aspetti, le due anime di un preciso momento storico. C’è una sorta di sintesi tra questi linguaggi ed estetiche, che ha generato un linguaggio coerente e con una sua forte identità.
R.B.: Come accennavo prima le pulsioni rivoluzionarie investivano i diversi campi del sapere e istanze decostruttive. che sotto l’aspetto formale e linguistico si andavano affermando. La sfida è stata in quel clima di affermare un proprio linguaggio autonomo che tenesse conto dei nuovi codici senza per questo rinunciare alla pittura.
S.S.: Qual è il tuo rapporto con il collezionismo? Conosci personalmente chi possiede le tue opere?
R.B.: Ovviamente si. Nel tempo il rapporto con i collezionisti è mutato molto. Fino alla fina degli anni settanta si lavorava soprattutto per gli spazi pubblici sotto la guida dei critici che allora organizzavano grandi eventi e i collezionisti rappresentavano una sparuta pattuglia di “matti” appassionati. Dopo, con gli anni ottanta, è cambiato tutto e il mercato ha cominciato a dettare le sue leggi.
S.S.: Finalmente a Milano è arrivato un bel riconoscimento rispetto alla tua lunghissima ricerca. Sei attualmente in mostra con una grande personale al Museo del ‘900. Alla luce di quasi settant’anni di lavoro, ti ritieni soddisfatta?
R.B.: Certo che sì, se ti riferisci alla mostra in corso al Museo del Novecento. Allargando un po’ lo sguardo l’interesse per il mio lavoro ha conosciuto fortuna alterne nel corso del tempo, dal grande entusiasmo suscitato al suo apparire fino ad un cono d’ombra con l’affermarsi di altri linguaggi artistici. Anche nella mia vita privata sono accaduti avvenimenti che mi hanno distratta. L’importante è non perdere la barra, poi, in fondo, patisco solo la sofferenza che nasce tra me e me, tra me e il mio lavoro. L’assoluta convinzione di quel che andavo e vado facendo ha fatto sì che attraversassi indenne i vari marosi che si incontrano nel corso della vita e poi come vedi il tempo è galantuomo .
Biografia
Renata Boero nasce a Genova, trascorre l’infanzia a Torino poi si trasferisce in Svizzera, dove compie studi umanistici. Tornata a Genova si iscrive al Liceo Artistico dove è allieva di Emilio Scanavino. Nel 1959 espone un’opera alla Quadriennale di Roma, manifestazione a cui partecipa anche nel 1986 e nel 1999. Negli anni Sessanta collabora come restauratrice con Caterina Marcenaro, da quest’esperienza prende avvio l’idea che la tela, per dialogare con lo spazio, deve essere libera dal telaio, inoltre inizia un appassionante lavoro di documentazione sulle sostanze naturali che darà origine ai Cromogrammi. Nel 1974 inaugura la serie degli Specchi, con queste opere, una delle quali esposta per la prima volta nel 1978 all’International Cultureel Centrum di Anversa, è invitata alla Biennale di Venezia nel 1982. Dagli anni Ottanta continua la sua ricerca artistica che la vede impegnata in diverse serie: Blu di legno, Architetture, Enigmi, Crani, Acquerelli di San Diego, fino a quella attuale con le Germinazioni. Tra le esposizioni personali si ricordano: Musei Civici di Monza (1988), Casa del Mantegna a Mantova (1992), University of San Diego, California (2005) Mestna Galerija di Nova Gorica, Umetnostna Galerija di Maribor (2007), Museo Nazionale di Storia e Cultura del Balarus di Minsk (2008), Universidad Nacional de Cordoba, (2010), Castello Aragonese, Ischia (2011), Museo Diocesano, Milano (2014). Ha partecipato, inoltre, a numerose esposizioni: XVI Biennale di San Paolo (1981), al Palais des Beaux Arts, Bruxelles (1983), Biennale di Venezia (1993), eventi collaterali della Biennale di Architettura nel 2008 e della Biennale d’Arte nel 2009. Renata Boero vive e lavora a Milano.
Renata Boero
Kromo-Kronos
Museo del Novecento, Milano
Fino al 23 giugno 2019