Il Sessantotto fra arte e politica. Intervista a Giorgio Seveso
Fonte: www.formeuniche.org
Giorgio Seveso: Nel Sessantotto io e mia moglie vivevamo a Sanremo e abbiamo organizzato, in un capannone, un “contro-Festival” a cui ha partecipato anche Dario Fo insieme alla moglie Franca Rame. Il Festival di Sanremo che abbiamo contestato era, all’epoca, fin troppo ingessato: era il festival dei buoni sentimenti e della borghesia, cui abbiamo contrapposto con quella nostra iniziativa la canzone politica d’allora che si riuniva attorno ai Dischi del Sole, ai Cantacronache e ai Cantinbanchi, a Fausto Amodei, Ivan Della Mea, Michele Straniero, etc. Detto questo, va considerato che in quel periodo – in quasi tutta Italia così come in Europa – si respirava un’aria di mobilitazione e di contestazione generale.
Assolutamente, la contestazione era ovunque; gli artisti contestavano anche all’interno della Biennale di Venezia. È l’anno in cui si blocca il premio di Lissone e, tra l’altro, è l’unico anno in cui il Premio Bugatti-Segantini non viene organizzato.
Come in tanti settori della vita culturale e sociale, il Sessantotto è stato un momento fondamentale, anche per il mondo dell’arte. Per alcuni ha rappresentato il coronamento di una serie di atteggiamenti politici che, dalla Liberazione (1945) in poi, si stavano accumulando. Per altri, invece, ha rappresentato la scoperta di una possibilità di cambiamento che non sospettavano. La liberazione è stata percepita da molti come l’inizio di un cambiamento non ancora compiuto, come qualcosa di rivoluzionario. Per altri ancora, la società che si è determinata dopo la Seconda guerra mondiale era il migliore dei mondi possibili. Con l’Italia repubblicana si era raggiunta una situazione di normalità. Il Sessantotto mette in crisi sia quelli che volevano continuare la rivoluzione della Liberazione – come, ad esempio, i partiti di sinistra – sia quelli che pensavano di vivere nel migliore dei mondi possibili.
Da qualche mese sono immersa nello studio di questo periodo storico e ammetto che vi sono molteplici interpretazioni; sembra difficile mettersi d’accordo in maniera univoca su ciò che esso ha rappresentato, considerando anche la sua eredità. Questo accade anche per coloro che il Sessantotto l’hanno vissuto in modo attivo. È possibile dare una lettura non ideologica del Sessantotto?
Penso di no. Temo che quando si parla di Sessantotto è difficile fare un discorso che sia fuori dalle ideologie. È vero tuttavia che si tratta di un momento storico che si presta a diverse letture. Ovviamente al centro del dibattito ci sono i progetti di cambiamento della società; cambiamenti che sono fortemente voluti e reclamati soprattutto dagli studenti liceali e universitari e dalla loro carica rivoluzionaria. Il Movimento nasce all’inizio negli USA, nei grandi campus universitari come Berkeley dove si protesta e si lotta contro la guerra nel Vietnam, poi immediatamente passa a Parigi con gli studenti della Sorbona e di Nanterre e si allarga in tutta Europa, penetra nei movimenti operai – più o meno rivoluzionari o riformisti – così come in quelli istituzionali di vari paesi socialisti come l’URSS, che hanno una loro particolare visione strumentale di ciò che sta accadendo. C’è chi legge infatti quanto sta accadendo come l’apogeo, la conseguenza “automatica” delle contraddizioni profonde del capitalismo, e ognuno cerca di infilarvi le proprie parole d’ordine politiche che si possano cavalcare. Poi, non meno importante e anzi determinante, c’è la gioventù della borghesia europea, che vive il Sessantotto come un momento di profondo rovesciamento generazionale sul piano dei valori e delle tradizioni, come possibilità di rinnovamento radicale delle istituzioni e delle condizioni anche individuali. Uno dei motti d’allora, esemplificativo di quello che sto dicendo è riassunto nella frase “Il personale è politico”.
È nel Sessantotto che si avvia, per esempio, il femminismo rivendicativo d’assalto. Ma le rivendicazioni sono sul piano della sessualità in generale: la contestazione arriva fin dentro la famiglia, la tradizione è avvertita come qualcosa da abbattere. Lo scontro generazionale diventa un fatto diffuso: chi all’epoca aveva diciotto, vent’anni era profondamente diverso dai coetanei di trent’anni prima. La parola dei padri era messa in discussione.
Io non credo che ci sia un modo univoco di leggere il Sessantotto, ma è indubbio che esso abbia rappresentato un momento di grande crisi della cultura capitalistica e dell’Occidente; può essere letto come il momento di innesco di una serie di processi valoriali che si ripercuotono fino ad oggi. In tutta Europa i giovani, studenti e operai, ripetevano nei cortei il grido degli studenti parigini sulle barricate “Ce n’est qu’un début, continuons le combat!” (É solo l’inizio, continuiamo a combattere!), e momenti di forti tensioni, proteste e contestazioni avvenivano, seppur soffocate, anche a Mosca, Pechino e nelle altre capitali socialiste nel mondo.
Nella pratica artistica si può dire che un altro motto del Sessantotto, “L’immaginazione al potere”, diventa una parola d’ordine specifica, che ha dei risvolti sul piano creativo del lavoro degli artisti, e che ha aperto una serie di possibilità espressive e rivoluzionarie diverse rispetto a una linea di sostanziale continuità formale e poetica; una libertà che talvolta si potuta tramutare per alcuni in una sorta “licenza” che ha reso clamorosamente percorribili dei percorsi che sono arbitrari.
A cosa ti riferisci nello specifico quando parli di percorsi arbitrari?
Ad esempio all’arte povera, che a mio avviso è stata una finta rivoluzione, anche se viene ancora considerata da alcuni un momento espressivo di cambiamento. A mio modo di vedere non ha cambiato nulla, anzi ha accentuato le contraddizioni di un modo di produzione e circolazione dell’arte che è tipicamente capitalistico. L’arte povera faceva risparmiare lavoro agli artisti senza togliere l’aspetto commerciale e senza sottrarli alla loro sostanziale solitudine di ruolo. È stato un modo di approfittare di questa libertà – o supposta libertà – per agire in un modo privo di controllo sociale e di verifica da parte del pubblico. Ciò non significa che tutti gli artisti poveristi o concettuali fossero, o siano stati, dei profittatori e degli opportunisti che si allineavano a un modo di procedere con facilità, alla ricerca del solo successo economico. Ho molta stima, ad esempio, del lavoro di Giuliano Mauri, che proprio in quegli anni anticipava con originalità le tematiche ecologiche, mentre un artista come Mario Merz, a mio avviso, ha approfittato parecchio. Infatti non rimane niente al di là dell’apparente valore commerciale – valore con la “v” minuscola – di un certo tipo di mercato che gioca su queste reliquie. Ma se parliamo di valore culturale autentico, non è rimasto nulla. Fra duecento anni nessuno si ricorderà più dell’arte concettuale.
Ne sei sicuro? Sopratutto l’arte povera sembra abbia avuto molta fortuna anche al di fuori dei confini nazionali.
Per me sì, l’arte povera ha avuto un ruolo determinante e ha ancora un peso. Nonostante ciò, sono convinto che non durerà, ma se chiedi a D’Amelio o a un altro gallerista o mercante, ti dirà il contrario, affermando che la mia è un’eresia. A mio avviso, si tratta di opere e di artisti che tramonteranno, come è accaduto, ad esempio, agli artisti francesi del primo Ottocento, i cosiddetti pompiers. Nessuno adesso si ricorda di loro, mentre all’epoca erano venduti a peso d’oro e valevano un sacco di soldi. Una volta cadute le ragioni per cui sono diventati famosi, le loro opere non hanno più sostanza. Una cosa simile sta proprio accadendo oggi agli artisti di Bonito Oliva, quelli della Transavanguardia. Vent’anni fa le loro opere valevano parecchio, mentre adesso quasi nessuno li conosce e i musei internazionali non li rappresentano; è la relatività dei valori che la storia spazzerà via.
Ma se dovessi definire una forma d’arte rappresentativa del Sessantotto, cosa potresti indicare?
Quello che resta dell’arte del Sessantotto, per me, non è questa o quella “tendenza”, o come si è oggi trasformata. Direi invece che in quel momento ha preso vita una concezione di arte che non si limita alle gallerie, al collezionismo, al museo, né tantomeno alla consacrazione della cultura ufficiale. É questo, se posso dire così, il cambiamento “rivoluzionario” che il Sessantotto ha lasciato sul piano dell’arte. Mi riferisco, ad esempio, all’arte dei murales, dei grandi dipinti su muri o striscioni, l’arte a servizio della propaganda politica, che faceva pubblicità alle grandi assemblee, come quelle che si tenevano alla Statale di Milano, e che certo non era fatta sulla “misura” delle gallerie tradizionali o per i riti delle inaugurazioni e delle aste d’arte. Allora cinque, sei pittori si organizzavano in un “collettivo” e andavano in giro a realizzare questi murales. Sono cose che hanno lasciato poche tracce, ma che erano molto presenti nel dibattito del fare quotidiano degli artisti. Artisti come Paolo Baratella, Fernando De Filippi o Giangiacomo Spadari, che hanno partecipato all’occupazione della Triennale qui a Milano, assieme a Piero Leddi, Giancarlo Colli, Lino Marzulli, Fabrizio Merisi o Gabriella Benedini e l’allora giovanissimo Gioxe De Micheli, erano mossi da un forte senso di contestazione; hanno occupato fisicamente uno spazio contro le regole, per testimoniare cose radicali legate al mondo dell’arte, non tanto alla società in generale. Baratella e gli altri contestavano il ruolo che l’arte aveva nella società. Si chiedevano a cosa servisse l’arte nella società in cui vivevano e la loro risposta era: «Serve ad abbellire i salotti dei borghesi, ad arricchire i mercanti e noi artisti, ma potrebbe essere molto di più. L’arte potrebbe essere parte di un pensiero e di un intervento collettivo incentrati su come modificare la realtà e immaginare una società diversa, più efficiente, più giusta». La contestazione, per quanto confusa e polivalente, si occupava dunque più del ruolo dell’arte nella società che di questioni di linguaggio e di mezzi espressivi, se stare o meno dentro la tradizione.
Come sempre esiste nella storia una spinta utopistica al miglioramento e al progresso, una pulsione che sempre viene respinta ma che esiste nei termini di una tensione dialettica tra cambiamento e conservazione. Infatti la società, nella storia degli uomini, va sempre avanti nonostante le resistenze di chi sta bene e vorrebbe che nulla cambiasse.
Quali sono a tuo avviso i prodotti formali di questo pensiero?
Mi stai chiedendo se esiste un’arte del Sessantotto? No, non esiste in quanto tale. Ma come ho accennato prima, una pratica artistica che in quel momento rispondeva al bisogno di intervenire e di contare è stato il lavoro collettivo o individuale di molti artisti nell’ambito dei murales, condotto soprattutto in funzione della contestazione politica. Nei decenni successivi, negli anni Ottanta e Novanta, questa pratica è diventata un’altra cosa. Mi riferisco alle tag o a quei murales dove vengono rappresentati grafismi vari e giochi geometrici per affermare l’individualità dei loro autori, rappresentazioni che diventano momenti di una sorta di arredo urbano, e che dunque non hanno niente a che vedere con la pittura dei muri del Sessantotto, che sicuramente era invece ispirata ai murales messicani o a quelli del Bauhaus della Germania prenazista. Il Bauhaus, al tempo della Repubblica di Weimar, è stato portatore di una grande utopia: inserire lo spirito artistico, il senso estetico, dentro oggetti e spazi di uso quotidiano. La riflessione che si faceva era quella del ruolo sociale dell’arte che in questo modo estetizzava la città e, con gli oggetti e gli spazi di uso collettivo, anche la società. Sfortunatamente questa utopia è stata spazzata via dallo scroscio di violenza della Seconda guerra mondiale.
Tornando a noi, non si può parlare di un’estetica del Sessantotto o di una precisa tendenza artistica ascrivibile a quel momento: ci sono state tante cose. È stato senza dubbio un momento catartico, in cui delle forti tensioni sono giunte a maturazione. Durante il Sessantotto hanno preso avvio nuove dinamiche, si è diffuso per esempio anche un fenomeno di autorganizzazione da parte degli artisti per sfuggire al condizionamento del mercato. Sono nate, infatti, una serie di gallerie sotto forma cooperativa, che saltavano la figura tradizionale del gallerista. Era un obiettivo utopistico e rivoluzionario che valeva la pena esplorare. Questo tipo di esperienze, di cui ti ho appena parlato, andrebbero ricordate in modo più sistematico e bisognerebbe scriverne la storia, finché c’è ancora qualcuno in vita che la può raccontare. Giusto per citare alcune di queste esperienze, mi ricordo, ad esempio, della galleria Nuova Corrente di Firenze, oppure della Cooperativa 77 di Milano, o ancora del Circolo Italsider di Piombino che, nell’ambito di un circolo dopolavoristico di fabbrica, svolgeva una intensa attività di mostre e di incontri tra artisti e pubblico operaio. C’era anche la galleria La Soffitta a Sesto Fiorentino, molto frequentata dagli artisti e intellettuali di Firenze e di altrove, animata dai pittori Piero Tredici, Giuliano Pini, Walter Falconi e Piero Nincheri. A Milano la galleria Ciovasso e la galleria L’Agrifoglio proponevano artisti figurativi sempre molto impegnati sul piano civile. Oltre a questo discorso dell’autorganizzazione da parte degli artisti, c’è stato poi un momento più istituzionale che consisteva nell’organizzazione sindacale che gli artisti, subito dopo il Sessantotto, hanno cercato di darsi. La CGIL ha confederato un sindacato artistico, il FNLAV (federazione nazionale lavoratori delle arti visive) che è stato molto attivo soprattutto per un decennio a Milano e a Roma tra i primi anni del 70 fino ai primi 80.
Comprendeva fior di artisti di diverso linguaggio, come ad esempio Guttuso, Treccani, Giò Pomodoro e Mauro Staccioli, oltre a critici e operatori. E come FNLAV ci siamo battuti per anni per fare applicare la legge del 2%: quella legge, tuttora esistente, che imporrebbe a tutti gli enti pubblici – comuni e regioni – di destinare il 2% del costo del progetto costruttivo (una struttura pubblica) all’acquisto di opere – mobili o fisse – da inserire direttamente nell’edifico.
Una conseguenza dei moti del Sessantotto è tutto il movimento culturale – che sfocerà poi dieci anni dopo nella cosiddetta legge Basaglia (1978) – che inizia a cambiare nel Paese la concezione stessa di malattia mentale, fino a giungere alla chiusura dei manicomi. Prima di questa legge il manicomio era utilizzato alla stregua di un carcere, dove la società nascondeva le devianze. Basaglia riconsidera le nevrosi, e fa un lavoro straordinario all’interno dei manicomi insieme ad alcuni artisti, tra cui suo cugino che era pittore, Vittorio Basaglia. I “matti” con il suo metodo usavano la creatività – il disegno, la pittura, la scultura – come mezzo di autocoscienza, e quindi di cura. La concezione di arte come terapia nasce proprio durante il Sessantotto. Si innesca un parallelismo e anche un cortocircuito tra il mondo della realtà artistica e il mondo della devianza e della diversità, tra malattia mentale e pratica artistica.
Quali erano i libri più letti in quel periodo?
Io leggevo Kerouac, Sartre, Levi-Strauss e Roland Barthes ma in generale erano molto letti gli scrittori della beat generation: Jukebox all’idrogeno di Allen Ginsberg era una sorta di Bibbia. Tra gli italiani, i libri e i film di Pierpaolo Pasolini, Sciascia, i primi saggi di Umberto Eco. Ma quasi tutti noi avevamo letto e assimilato L’interpretazione dei sogni; infatti, nel Sessantotto, la psicologia del profondo e la conoscenza di Sigmund Freud, di Jung e della psicanalisi, diventavano qualcosa che apparteneva a tutti.
Avevi sentito parlare di “Lettera a una professoressa”?
Certamente, è stato un libro fondamentale, che ha dato una scossa anche all’interno dei partiti stessi d’allora. Il libro affrontava in modo orizzontale i temi caldi al centro della contestazione giovanile: il discorso sulla scuola e sul diritto allo studio, sulle differenze di classe, sull’ingiustizia nella società e sul ruolo dell’educazione come pedagogia sociale.
Sempre in quell’anno Pasolini pubblica per l’Espresso la poesia Il PCI ai giovani, dove con grande scandalo, soprattutto della sinistra, simpatizza e difende i poliziotti, protagonisti dello scontro di piazza noto come la Battaglia di Valle Giulia (1º marzo 1968). Questa poesia sembra allineata, anche se in un’altra prospettiva, al discorso portato avanti da Don Milani nel libro “Lettera a una professoressa”. Qual è la tua posizione in merito?
Pasolini e Don Milani vedevano lontano, e con grande chiarezza. Il Movimento del Sessantotto è stato anche un movimento di giovani studenti borghesi. Nelle scuole, ma sopratutto nelle università, c’era una grande prevalenza di classe borghese e piccolo-borghese. I figli degli operai e dei contadini erano pochi, difficilmente accedevano al meccanismo universitario e difficilmente finivano il liceo. Lo scontro e le differenze di classe erano dentro la scuola stessa, e si ritrovavano pari pari anche nella società, nelle istituzioni, nella politica e – perché no – anche nell’arte.
Secondo te ha senso parlare di arte e politica? Mi spiego meglio: queste due parole in che modo posso stare insieme? È un binomio che si può dare?
Sì, si può dare, ma non in una forma di consequenzialità, di causalità. L’arte non è direttamente politica, e la politica certo non è arte; ciò non toglie che si possa avere una serie di intrecci significativi e determinanti, ma sono cose tra loro distinte, che possono avere un rapporto e che l’hanno avuto, anche se talvolta in forma problematica. L’arte è libera per definizione, sul piano dei linguaggi ma soprattutto su quello dei suoi contenuti, della sua poetica. Per me, si può parlare di arte politica (attenzione: non di arte e politica ma proprio di arte politica, dove “politica” è aggettivo qualificativo) solo nella misura in cui quell’arte, in qualche modo, riflette la sostanza del suo tempo e tende a descriverla, comprenderla, criticarla. Ecco. In questi termini, c’è oggi qualcuno che fa arte politica? Io penso di sì, anche se si tratta certo di un aspetto assai minoritario del panorama dell’attualità artistica. Un aspetto, o più aspetti, che si muovono dentro difficoltà e disattenzioni indicibili, del resto prevedibili da parte di una società consumistica e superficiale come la nostra.
Per esempio, dal Sessantotto erano già passati due anni quando, nel 1970, una grande mostra di pittura si è potuta ispirare per la prima volta in Italia a quel momento di contestazione culturale e politica, con la rassegna itinerante Arte contro, dal realismo alla contestazione organizzata da Mario De Micheli con le opere di quarantadue artisti, allora giovani e meno giovani. E sono dovuti passare quasi dieci anni prima che Enrico Crispolti potesse curare alla Biennale di Venezia del 1976 la sezione italiana Ambiente come sociale, in cui tutto il Padiglione Italia era dedicato a una tematica esplicitamente sociale e politica.
Per concludere, penso che molte risposte che sono venute fuori delle domande aperte dai movimenti del Sessantotto siano risposte semplificate, che eludono il problema. La storia, anche quella quotidiana, è un processo che apre continuamente domande, alle quali si può rispondere in molti modi: si può addirittura ignorarle, come fa la maggioranza delle persone che vogliono vivere tranquille e “farsi gli affari loro”, si può tentare di rispondere in modo semplicistico o si possono formulare risposte complesse. Dal mio punto di vista bisognerebbe scegliere sempre le risposte complicate, ma temo che nei confronti del Sessantotto, cinquant’anni dopo, pochi l’abbiano fatto davvero.
Simona Squadrito