Lo sguardo metamorfico | Intervista a Franco Guerzoni
“Credo ci sia un rapporto stretto e implicito con la politica in tutto il lavoro artistico. L’immagine per sua natura si manifesta e si dedica agli altri. Comunica, si racconta, entra nella comunità degli sguardi ed è quindi sempre politica…”
Franco Guerzoni è il vincitore del Premio alla Carriera della 59ª edizione del Premio Internazionale Bugatti-Segantini, che quest’anno vede rinnovata per la seconda volta la curatela di Martina Corgnati.
Simona Squadrito: Come prima cosa vorrei farti le mie congratulazioni per l’assegnazione del Premio alla Carriera, che hai vinto in questa edizione del Premio Internazionale Bugatti Segantini. Quest’anno il tema principale dei progetti Speciali e Internazionali del Premio è il binomio arte e politica, con un focus sul Sessantotto. Vorrei quindi chiederti: che tipo di rapporto può esserci tra l’arte e la politica? È un binomio che si può dare? Se sì, come?
Franco Guerzoni: Credo ci sia un rapporto stretto e implicito con la politica in tutto il lavoro artistico. L’immagine per sua natura si manifesta e si dedica agli altri. Comunica, si racconta, entra nella comunità degli sguardi ed è quindi sempre politica, lo è anche quando è cortigiana. Se invece per arte politica, s’intendono i tentativi orientati ai singoli problemi sociali, alla pratica vera e propria di un’arte di denuncia, che si occupa direttamente di allarmi sociali, l’elenco sarebbe lunghissimo, dal novecento delle avanguardie fino a noi. Semplificando dovremmo ricorrere alle immagini del futurismo e al dipinto nero, che Malevič portava in processione come un vessillo dell’arte pura, per giungere alle performances di Ana Mendieta e Marina Abramović, fino alla mano con il dito medio alzato di Cattelan, per ricordare solo alcuni tra una moltitudine di artisti che si sono occupati di questo scivoloso argomento. Mi pare che questa pratica oggi sia molto diffusa anche nei paesi in via di sviluppo, oppure nelle comunità con forti disparità sociali. E’ un’arte che si nutre di contrasti, per la quale l’immagine nei tanti modi diversi con cui oggi si può manifestare, dalla performance al lavoro ambientale – diviene uno dei linguaggi più efficaci alla denuncia. La vicinanza ha fornito spesso il megafono alla voce dei totalitarismi – penso al novecento. E anche le rivoluzioni hanno avuto i loro celebratori… .
L’arte che ha utilizzato l’enfasi per celebrare le figure del potere ci ha lasciato un popolo di statue e una moltitudine di effigi oggi dimenticate. Per contrasto con il corteggiamento del potere, l’artista ha poi preso anche le sembianze di guerriero dell’arte, prima e dopo il crollo dei totalitarismi, fino a diventare oggi la voce delle grandi emergenze ambientali. Ricordo per tutti Piero Gilardi artista torinese di grande talento, che si è prestato felicemente alla realizzazione di grandi pupazzi spavaldi e ironici da esibire in cortei di protesta negli anni sessanta. Del resto, nel maggio francese, la realizzazione dei tanti manifesti che inneggiavano all’immaginazione al potere si deve al lavoro di vere e proprie comunità di artisti. Forse tu alludi proprio alla scena di Parigi, che ha visto le arti impegnate in prima fila a proclamare la rivolta verso quanto appariva retorico e tradizionale. In quegli anni siamo stati tutti almeno accarezzati dalle mode culturali e dalle filosofie della liberazione provenienti dalla Francia, ma soprattutto dall’America e dall’Inghilterra. L’arte quindi si è messa al servizio delle nuove dirompenti idee di cambiamento, non sempre e non solo come megafono: si pensi al cinema di Godard, alla riscoperta del cinema surrealista e dadaista dal quale sarebbe poi stato ricavato il propellente esplosivo per le nuove immagini. È riapparsa allora la vena guerriera dell’arte.
S.S.: La questione relativa al pubblico e allo sguardo dell’altro è fondamentale. Non mi sembra però che l’arte contemporanea sia interessata in modo particolare a essere compresa da un pubblico generico. Io, dal canto mio, come direttore di una struttura pubblica che offre al pubblico, anche generico, eventi legati all’arte, non posso fare a meno di ascoltare la loro voce, le loro istanze, e provare a raccontare e spiegare loro l’arte contemporanea. Molto spesso vengono fuori discussioni estremamente rilevanti; spesso l’ingenuità e l’ovvietà delle loro istanze mi portano a scoprire i miei limiti, i limiti del sistema. Cito spesso le ultime parole di Hauser in “Storia sociale dell’arte”, quel passo in cui sostiene che il compito attuale dell’arte non è quello di adeguare l’arte alla ristrettezza mentale delle masse odierne, quanto piuttosto quello di provare ad allargare il loro orizzonte. Questa citazione, se vuoi anche paradossale, apre la questione intorno all’intenzionalità dell’artista che ha la responsabilità di riflettere sul pubblico.
F.G.: Comprendo le tue legittime preoccupazioni sui temi divulgativi. Marcel Duchamp, grande pensatore, sosteneva che il dipinto esiste nel momento in cui incontra lo sguardo dello spettatore. Senza quello sguardo, il dipinto è invisibile se non per gli occhi di chi l’ha prodotto. La citazione di Hauser, mi riporta invece a ripensare al conflitto che si sentiva tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta. All’epoca gli artisti avvertiti si nutrivano d’informazioni provenienti dalle avanguardie storiche e dalle neoavanguardie, e anche loro erano, come dire, “vittime innocenti” dell’ambiguità della tua citazione. Ricordo con qualche tenerezza, che io finivo per sommare i fuochi delle avanguardie e i venti della politica accesa in un mix concettualmente esplosivo.
Come fare a incontrare lo sguardo non specializzato degli altri? In quegli anni, il quesito appariva senza soluzione: arte e popolo avrebbero dovuto andare insieme, ma si sentiva che le due parole erano spesso divaricate tra loro.
Se da un lato si camminava verso la ricerca del nuovo attraverso le sperimentazioni, – nelle arti visive, nel cinema, nella poesia, nel teatro – dall’altro invece non si riusciva a portare il lavoro a quella società aperta alla quale ci si voleva rivolgere, agli occhi degli altri, appunto. Come vedi le tue preoccupazioni erano anche le mie di allora e non solo le mie. L’aspetto era molto avvertito e nutriva una costante preoccupazione; sono nate così manifestazioni che avevano lo scopo di avvicinare il pubblico all’arte e nel contempo dare corpo a questa aspirazione: i festival della musica e delle arti in genere ne erano i contenitori. Si cercava di coinvolgere un pubblico più ampio di quello che solitamente seguiva la ricerca artistica, nel tentativo di accompagnare le nuove ricerche dentro il tessuto sociale. Tutto questo ha prodotto poi nuove e inattese ambiguità, ingenuamente si è elaborata una grande trappola didattica. Cosa si diceva? « I luoghi che raccolgono e presentano l’arte, come ad esempio i musei e le gallerie, sono luoghi che selezionano; bisogna quindi uscire da questi luoghi ». Il continuo tentativo di aprire i confini imposti dalla ricerca è divenuto in seguito frustrante: non si volevano abbandonare i linguaggi della ricerca e nel contempo non si elaboravano gli strumenti di quell’incontro desiderato. Si rimaneva in equilibrio precario tra l’immagine del Quarto stato di Pelizza Da Volpedo e la Città che sale di Boccioni, in bilico tra le aspirazioni dell’Ottocento e i fuochi del Novecento. Ricordo, ad esempio, che in quel tempo guardavo stupito il tentativo del Living Theatre: un teatro molto coinvolgente che si apriva al pubblico attraverso la provocazione e lo scambio di ruolo con gli spettatori. La loro vocazione prendeva le mosse dal pensiero di Antonin Artaud il quale, a ben guardare, neanche oggi è un autore popolare, pur essendo certamente un grandissimo autore. Le tue insidiose interrogazioni forse possono trovare qualche risposta se portate nel nostro tempo: il periodo al quale mi riferisco, in realtà, più che una sfiorata rivoluzione, ci mostra la grande e sincera ingenuità che sottendeva l’abbattimento del muro che separava le ricerche artistiche dalla loro fruizione allargata.
S.S.: Certo, il cosiddetto abbattimento della quarta parete.
F.G.: Sì, forse il mondo dell’arte tentava di entrare fragorosamente in un pubblico che non conosceva. Gli intenti di avvicinamento si riducevano alla sola provocazione come tentativo d’incontro-scontro con il pubblico desiderato, ma forse non abbastanza amato, per capirne le richieste e le aspirazioni. Il collasso seguito a questi tentativi che ho appena tratteggiato provocò un rientro all’ordine: il crollo del muro e degli antagonismi che quell’impianto prevedeva finì per isolare i vagheggiati tentativi di un’arte che potesse coinvolgere un più vasto pubblico, il “popolo” come allora si diceva. Forse The Wall dei Pink Floyd potrebbe essere considerato l’emblema musicale e politico che celebra l’abbattimento del muro. Alla fine degli anni Ottanta il muro di Berlino cadde davvero, l’evento fu celebrato proprio dal concerto memorabile dei Pink Floyd. Ricordo i tentativi di una poesia totale, del cinema destrutturato, dell’happening, del teatro di Carmelo Bene, del grammelot di Dario Fo che forse ha meglio concretizzato quell’incontro tra ricerca e pubblico.
Il nostro tempo a ben guardare non registra l’insorgere di avanguardie artistiche, ma vede emergere negli artisti più avvertiti il ricorso a una molteplicità di saperi, fino all’uso degli strumenti propri della pubblicità. Le tecniche dello stencil adottate da Banksy, le pitture murali di Blu e dei loro tanti epigoni sono tra le immagini più potenti che incontrano sguardi diffusi, eludendo in parte le regole del mercato. Il tema della quarta parete è tornato fortemente nel lavoro di molti artisti, con approcci che trovo interessanti. Convivono due mondi: quello specializzato delle gallerie e dei musei, con le loro secolari regole e l’artista che cammina a fianco del critico e del gallerista: e l’altro mondo che tiene in vita l’idea bella e romantica dell’artista senza macchia e senza paura. Sta riemergendo una volontà di comunicare l’arte a un vasto pubblico, così come mi pare una buona cosa il rinnovato interesse per l’arte del passato, che resta comunque vincente sulle immagini inquiete del nostro tempo, ma questa è storia antica.
S.S.: Tu mi parli di un rinnovato interesse per l’arte. Ma bisogna tenere presente che l’arte è entrata a far parte di quell’enorme sistema che si chiama industria del tempo libero. Mi sembra che più che un interesse per la divulgazione dell’arte, per l’educazione all’immagine, ci sia quello di intrattenere il pubblico e di vendere l’arte alla stregua di una merce qualsiasi. Le cosiddette “mostre blockbuster” sono concepite alla stregua di telenovela, reality del passato, dove a far la maggiore è più l’aneddotico legato alla vita dell’artista che l’opera in sé.
F.G.: Per rispondere alla tua domanda ricorro ad un episodio che mi è accaduto di recente. Il terremoto distruttivo del 2012 che ha investito la bassa modenese ha provocato danni strutturali anche alla Pinacoteca della mia città, la Galleria Estense di Modena, che è rimasta chiusa a lungo per i lavori di restauro.
In occasione della sua riapertura sono stato invitato a realizzare un intervento nell’androne del Palazzo dei Musei. Per l’occasione ho realizzato un gioco scenico, costituito da quattro brevi atti teatrali dedicati a Francesco I d’Este, che fu ritratto da Bernini in un monumento marmoreo che è uno dei suoi lavori più alti. Il Principe è rappresentato in una postura così volante e aerea da diventare un emblema della ritrattistica del suo tempo. Per diversi giorni, la Pinacoteca solitamente vuota si era riempita di persone. Per giorni interi, davanti al palazzo vedevo una lunga coda di cittadini incamminati verso il museo nuovamente allestito e restaurato. Il cuore storico della città si riapriva alla comunità. In quel momento non ho fatto tutti questi ragionamenti sul pubblico e le mostre preconfezionate, ma ho avuto, forse per mia debolezza, una grande e immediata felicità. Forse i cittadini si sono resi conto che quel museo appartiene a loro, e sono andati a vedere i loro possedimenti, quello che avevano rischiato di perdere in seguito alle scosse prepotenti. Che cosa abbia fatto scattare questo meccanismo è da ricercarsi nelle tante iniziative collaterali messe in atto per quella speciale occasione e che hanno stimolato il terremoto emotivo del pubblico verso l’evento di apertura. Forse il successo di pubblico si doveva anche alla sensazione diffusa che un così importante giacimento si potesse perdere in seguito al terremoto. Nei tre giorni di repliche del gioco scenico Aspirazione sono stato testimone di quel flusso continuo di persone silenziose ed osservanti. Credo questo sia stato un buon progetto d’incontro, capace di costruire intorno alla riapertura della Galleria Estense una ragnatela di eventi che ne corteggiassero il senso.
Mai come nel nostro tempo si è osservata tanta fortunata letteratura dedicata alla figura dell’artista, alla sua leggenda. Le biografie dedicate alle vite degli artisti sono di quotidiana pubblicazione, soggetto non solo letterario ma anche cinematografico, o più semplicemente nelle forme del documentario. Si riapre l’interesse verso una figura che il romanticismo ha reso leggenda e credo che di questa figura non ci libereremo mai. Avverto il rischio dell’aneddotico, ma da lettore impenitente di biografie ne sono segretamente felice, convinto che nella migliore delle ipotesi siano buoni racconti.
S.S: Spesso al pubblico generico, l’opera appare muta, quasi come fosse un oggetto ottuso, ma se si ritine, invece che sia importante dar voce a questi “oggetti”, come possiamo secondo te mettere appunto una narrazione credibile che sia in breve un via non banale di divulgazione di alcuni significati dell’opera? Ma anche non addentrandoci dentro i suoi significati, che tipo di strumenti di lettura e di interpretazione si possono fornire?
F.G.: Inguaribilmente didattico desidero raccontarti un altro episodio nel tentativo di affrontare il tema che ti sta a cuore. Quando la gang di Maniero prese in ostaggio dalla Pinacoteca di Modena il ritratto che Velasquez fece a Francesco I, nell’intenzione di un ricatto allo Stato, in città si creò un enorme scalpore. Mia madre, che non era mai stata alla Pinacoteca di Modena e che non aveva mai visto di cosa era anch’essa proprietaria, dopo aver appreso la notizia dai giornali, si incattivì come non le era mai stata. Così le chiesi: «Perché ti arrabbi se non hai neanche mai visitato la Pinacoteca?» Mia madre mi rispose: «Perché il ritratto è nostro e ce l’hanno portato via ». Si è sentita derubata di qualcosa che era anche suo. Questo episodio, ci offre un campo di riflessione, su come i cittadini debbano prendere coscienza di essere i leggittimi propietari dei contenuti dei loro musei.
Pur essendo abituato alle dinamiche dell’arte e pur amando l’ermeneutica nelle sue infinite sfaccettature, quando ho realizzato il gioco scenico per il museo non ho pensato a tante strategie, e quando di persona ho visto sfilare tutte quelle persone verso il museo, ho provato davvero un senso di intima felicità. I miei concittadini andavano finalmente a vedere le immagini che io avevo tanto amato fin da ragazzino, le potevo condividere. Se mi chiedi cosa hanno visto queste persone – beh io non lo so. Ma so che la bellezza, come bene ci dice Standhal, non è che una promessa di felicità. La vicinanza con l’arte passata e presente apre senza dubbio prospettive emotive di grande interesse. La questione legata alla gestione del museo è un nodo molto complesso.
Se riteniamo utile mostrare le immagine che l’arte produce, o ha prodotto, esattamente come crediamo che i libri debbano essere letti, bisognerà per forza di cose ragionare sulle prospettive legate alla politica dell’arte e all’educazione alle immagini. Questo tipo di educazione dovrebbe essere molto presente nelle scuole quando i bambini cominciano a leggere o prima ancora a vedere le parole. Si tratta di aspetti di pari importanza, linguaggi differenti che mirano allo stesso obiettivo: fornire la consapevolezza dell’esistenza dell’immagine come figura della storia. Mi capita spesso di vedere lavori di giovani artisti che non comprendo immediatamente, perché non identifico subito la loro strategia, magari mi sfiorano soltanto e proprio per questo forse ne sono anche attratto. L’attrazione per ciò che non conosco, il motore della curiosità mi fa apprezzare la narrazione che l’accompagna. Qualche volta mi piace anche inventarla da me quella narrazione, cercarla… Ma io vivo comunque nel mondo dell’arte, faccio parte di un mondo che si nutre d’immagini, la mia responsabilità è anche quella di portarne alla luce di altre. La curiosità quindi è uno dei motivi dell’apprendere. Nonostante ciò, capisco lo sconcerto di quanti, riconoscendo come arte un unico tipo di immagine si disorientano difronte a immagini che divergono dal loro canone. Per questo è utile corteggiare l’opera con parole che producano un doppio ritmo, parole che le accarezzino le immagini e sfuggano dall’inganno romantico che vuole che l’opera parli il suo solo linguaggio. La ragione prima dell’esistenza di un’opera, abbiamo detto in apertura, è che arrivi agli occhi delle persone. Esistono già, nel lavoro artistico stesso le strategie d’incontro. Sono i segni, i colori, e quel sensibile messo in moto dall’artista e da chi gli sta accanto – storici, critici, galleristi – che aspetta di essere ascoltato. Affidarsi alla sola immagine può non bastare, occorre conoscerne il linguaggio. La macchina che mette in moto il film della visione è l’architettura per raggiungere l’opera. Il sensibile che risiede nell’opera, parla una lingua sottile, per udirla è quindi necessario accostarsi.
S.S.: Quando prima ti riferivi, con un filo di ironia all’ “arte guerriera”, cosa volevi dire esattamente?
F.G.: I writers che vorrebbero fuggire da questa logica, che crescono nel buio della notte e nei suoi pericoli, in fondo ci obbligano ad uno sguardo, spesso distratto, “a volo di uccello”, ad una visione che non ti porta conforto. Se non possiedi le chiavi di lettura, i loro graffiti diventano immagini che intravedi ma che non guardi e tutto diventa paesaggio. Io credo a un incontro più sensibile con l’immagine, che ne rispetti la fragilità, come bene dicevi prima, le percezioni errate rischiano di impoverire l’incontro.
S.S.: Spesso le teorie chiudono il lavoro impoverendolo. Il significato delle opere cambia nel tempo, a loro si rivolgono domande differenti. Le opere nel tempo perdono dei significati ma ne acquisiscono di nuovi. Uno dei filosofi che più amo, Michail Bachtin, sosteneva che un aspetto importante che gli antichi greci non hanno saputo di loro stessi, è il fatto di essere classici. Meno di un anno fa è stata rifiutata dalla Transport for Londonuna campagna pubblicitaria legata a una mostra dedicata a Egon Schiele, tanto da dover creare dei nuovi manifesti dove i genitali esposti in quei dipinti venivano censurati da un banner contenete la scritta“Sorry, 100 years old but still too daring today”.
Un’immagine, nonostante sia stata accettata e divulgata a distanza di anni, può apparire scandalosa e urtare la sensibilità delle persone. Come lo spieghi?
F.G.: Si tratta di un esempio molto puntuale. Schiele era scandaloso già in vita. I suoi dipinti come i dipinti tutti, sono portatori di cariche opposte, non sono mai interamente buoni. Possiedono almeno due voci: quella ammiccante, la voce strategica per incontrare gli occhi dello spettatore e l’altra invece ricca di vere e proprie estroversioni che riguardano l’animo dell’artista, le sue intimità, la sua esibita sensualità. Gli esempi che mi hai fatto si inseriscono all’interno della strategia che l’opera mette in moto per farsi guardare, anche offendendo lo sguardo.
S.S.: Uno sguardo che si offende a seconda del contesto e dell’epoca.
F.G.: Quello che mi hai detto sugli antichi greci è illuminante. A cambiare non è l’opera: metamorfico è il modo di guardarla. I San Giovannino di Caravaggio erano esposti nelle abitazioni dei cardinali: il loro carattere lascivo che anche oggi guardiamo con scandalo, era allora assai apprezzata. La visione dell’opera cambia e accade anche che siano recuperate opere che danno di sé immagini divergenti rispetto all’epoca che le ha viste nascere, anche al di là della volontà degli artisti che le hanno realizzate. A essere metamorfico è certamente lo sguardo. Riprendendo ancora il tuo esempio, posso dirti che quello che guardiamo, spesso appartiene a una forma mitologica come una lente opaca sull’occhio che ci costringe a vedere soltanto quello sappiamo, come un filtro che non fa passare il nuovo e lo sconosciuto. È il nostro personale DNA attraverso il quale si organizza la storia del vedere. È un po’ come quando si va al cinema con il mal di denti e si esce sconvolti, non per il contenuto del film, ma perché non ne abbiamo percepito i significati, disturbati come eravamo. Come dice bene Enrico Ghezzi, il film comincia quando decidi di recarti a vederlo, quando parti da casa, quando si spegne la luce in sala; insomma, quando ti predisponi a vedere. Quello che mi hai appena detto stimola in me soprattutto una riflessione intorno alla predisposizione al vedere. È vero può che esistere un incontro fortuito con l’arte, simile a un incontro amoroso, e che certamente appartiene alle intimità alchemiche delle persone, a quel magnetismo che possiedono in forme rare ma, oltre a questi accadimenti speciali, credo si debba cominciare a vedere l’arte prima ancora di vederla: è quindi forse un problema di predisposizione.
S.S.: La predisposizione a vedere non è che la si può sempre comandare, proprio perché si innestano in questo meccanismo diversi elementi, come l’emozione, i ricordi, la memoria. All’improvviso può capitare che un’immagine ti si apra nella mente, e spesso questo incontro di amore o di odio avviene in modo fortuito e assolutamente inaspettato. Mentre ero in viaggio per venire qui da te ho riletto alcuni passi di “Rosa Tiepolo” di Calasso. C’è una parte in cui Calasso racconta dell’incontro tra Proust e Tiepolo. Nella “Recherche”, carica di riferimenti alla pittura, non si parla mai di un’opera di Tiepolo, ma il suo nome viene detto tre volte. In pratica Proust ritrova Tiepolo nel rosa di alcuni elementi delle vesti delle donne da lui più amate: Odette, la duchessa Guermantes e Albertine. Queste apparizioni innestano nella percezione e nella memoria di Proust l’opera di Tiepolo, e avviano un cambiamento nella percezione stessa dell’opera, un cambio di rotta, un nuovo ricordo, toccando i punti più nevralgici della sua mente eccitabile.
F.G.: Ho letto con piacere Rosa Tiepolo di Calasso e ricordo quel passo. Sì, ciò che abbiamo detto fino ad ora a proposito dell’incontro con l’opera d’arte appartiene al mondo delle ipotesi; non credo esista un’esatta griglia alla quale attenersi per leggere un’immagine. Si sa, ci si può innamorare del modo di camminare di una persona, del suo muoversi, dell’inflessione della sua voce. Ricordo che Paola la seconda moglie di Luigi Ghirri, affermava di essersi invaghita di lui udendone al telefono la sua voce. Ma, di nuovo, credo stiamo entrando nell’area del mito e attraverso le sue magie tutto diventa possibile. Il mito è produttore di una quantità di cortecce e pelli che altro non sono che le attribuzioni che gli vengono conferite nel tempo. Il mito appare attraverso i diaframmi di senso che gli uomini gli hanno attribuito, come corazze che lo trattengono. Anch’esse fanno parte del mito come incrostazioni prodotte dal tempo. Cosa avverti, ad esempio, quando entri in una chiesa o in un tempio? Oltre alla bellezza, alla struttura architettonica, alle opere che danno immagine al sacro, avverti in modo molto chiaro che il tempio è un contenitore di desideri. Il tempio è un luogo che è stato attraversato dai popoli, dalla moltitudine delle persone che in quel luogo hanno chiesto e rivolto alla divinità un’attenzione alle loro necessità: questa richiesta è rimasta dentro il tempio, è la sua incrostazione. Toglierla è impossibile, questa incrostazione appartiene al mito colto in forme accessibili. Quindi è la percezione del mito ad essere metamorfica, le percezioni sono figlie del loro tempo.
La tua citazione verso la quale mi dispongo in modo labirintico, mi ricorda che nei primi anni settanta pubblicai con la casa editrice Geiger, Oùtis un libro in tiratura limitata dedicato al mito di Polifemo, costruito attraverso la “concettualità sporca” tipica di quegli anni, il libro prendeva le mosse da una ricerca bibliografica sulle origini di quel mito, a partire dal coccio greco arcaico, in cui compare un’immagine prima di Polifemo, attraverso le sue infinite interpretazioni, per giungere fino alla sua immagine cinematografica in un film di Mario Camerini. Naturalmente il mio viaggio avrebbe potuto continuare ancora. Il libro era da intendersi come una sorta di fisarmonica limitata ai momenti più significativi della trasformazione del mito. Sfogliando le pagine del libro, la figura di Polifemo appariva in fogge e in stili completamente diversi, a seconda dei tempi diversi nei quali era stato descritto.
In quel vero e proprio racconto per immagini, forse anche in modo ingenuo, tentavo di affrontare il tema della metamorfosi del mito attraverso le sue diverse scritture.
Su questo piano, potremmo citare la “sindrome di Stendhal”, la vertigine che il grande scrittore sente davanti all’opera, anch’essa frutto di uno stato emotivo particolare capace di destabilizzare l’equilibrio. Anche l’aura che Benjamin intravede intorno all’opera d’arte come aureola minacciata dalla tecnica è certamente una bellissima immagine letteraria. Letteratura lontana, non so quanto oggi influente sul lavoro degli artisti contemporanei, come non so nemmeno quali influenze possono avere nelle nuove generazioni di artisti, le sottili filosofie di Duchamp. Sono lontane… .
S.S.: Se da un lato viviamo, come tu stesso affermi, in un presente inquieto, dall’altro lato il mondo dell’arte, nonostante appaia come pluriligustico, plurisematico e plurisemiotico è in effetti estremamente regolamentizzato e assolutamente standardizzato. In un’epoca in cui tutto sembra possibile paradossalmente si è ristretto il campo d’azione e tutto appare simile.
F.G.: Forse le mie riflessioni sono rivolte spesso al passato come stratagemma per sfuggire alla tua questione sull’ “arte e politica”, che stiamo capovolgendo in “politica dell’arte” – che non è la stessa cosa. In verità, i tuoi quesiti mi riportano a quell’anno, il ‘68, anno nel quale io compivo i miei 20 anni. Di questa turbolenta stagione si è detto talmente tanto che ora indugio ad aggiungere un’ulteriore parola, forse basta per tutte la mia indicazione anagrafica a dirti quanto le due parole da te pronunciate abbiano contribuito al mio sogno, perché di questo si è trattato. Arrivando all’oggi dell’arte inquieta, che osservo con molta attenzione, se si escludono i soli tentativi coinvolgenti ma sempre stancamente provocatori, credo sia davvero difficile per gli artisti giovani trovare in un mondo artistico così fortemente regolato le energie per sfuggirne i dogmi. In fondo poi, anche gli strappi murali e le vendite delle immagini di Banksy lo dimostrano: lo Zorro dell’arte è soggetto anch’esso ai mercati più deviati o depravati. Così diventano ancora più interessanti le cancellazioni di Blu che sottrae l’immagine al suo previsto destino mercantile.
S.S.: Rispetto ad alcuni lavori contemporanei mi sembra difficile fare una narrazione credibile. Spesso si tratta di opere che ci sfuggono, che scivolano. Forse questa inafferrabilità è dovuta al fatto che è sempre difficile tirare fuori la testa dal proprio presente, dare un giudizio riflessivo in assenza di un’adeguata distanza storica.
F.G.: Dialogare sul passato dell’opera è più semplice, perché ci si può imbattere in immagini sedimentate e certamente più docili da incontrare, che non quelle accese del nostro tempo. Forse il nodo centrale della nostra chiacchierata è diventata la sola percezione. Parlare in generale di arte e di politica è per me davvero difficile; si potrebbe affrontarne il quesito partendo dal discorso intorno alla generalizzazione dello sguardo, del cercare uno sguardo altro per vedere, o forse dovrei essere in possesso di strumenti di indagine che non possiedo. Da osservatore appassionato, non mi appartiene la risposta certa. Mi muovo quindi per aneddoti… Eccotene un altro! Sembra una fiaba… .
Tanto tempo fa un gruppo di trasportatori venuti a ritirare dipinti destinati ad una esposizione a Monaco, suonarono alla porta del mio studio. Davanti alla porta apparvero tre tipi che sembravano usciti da un film di Mad Max: tutti tatuati, bellissimi e bruttissimi a tuo piacere. Lo studio era pieno di quadri, ma quando i tre entrati con voce arrogante mi chiesero: « Dove sono i quadri? » – ed io infastidito risposi: « E questi cosa vi sembrano? ». Uno dei tre, forse il capo, che sembrava un corsaro, si guardò intorno e disse infastidito e forse anche offeso: « Ah questi? Sono quadri come i Pink Floyd ». Questa risposta difensiva non mi ha mai abbandonato: uno dei motivi è certamente legato al fatto che in studio ascolto soltanto la musica onirica dei Pink Floyd, ma l’altro è legato strettamente alla dimostrazione che, ancora una volta, le persone vedono spesso attraverso quello che sanno, ed è qui che entra in gioco il discorso sull’educazione che tu stimoli. Questa considerazione però potrebbe anche impoverire la natura del lavoro artistico. La sovrastruttura che si crea sull’occhio può diventare una maschera che impedisce di vedere la natura intima del dipinto. Ovviamente le percezioni possono diventare come in questo buffo caso, divertenti e rivelatrici. La predisposizione all’immagine si potrebbe configurare come una camera di compressione, si entra e ci si predispone al vedere.
Quando ho visto, alla loro prima esposizione, i Bronzi di Riace, dopo il loro fortunoso ritrovamento, sentìi un’emozione talmente forte che, certamente, quella disposizione a vedere me la ero portata da casa. Quando ci si predispone a vedere, può anche accadere di iper-vedere. La visione preparata da un massaggio del desiderio si offre come una lente d’ingrandimento, enfatizza il soggetto osservato. Siamo ancora alla sindrome di Stendhal. Ti faccio un altro esempio, per osservare le opere di due artisti dal magnetismo particolare – due giganti per tutti, distanziati nel tempo, Caravaggio e Rothko – io mi devo accostare ai loro dipinti prudentemente di lato e mai frontalmente. Come guardare all’opera, secondo me, è uno dei primi temi che si devono affrontare quando ci si occupa degli occhi degli altri; poi, ovviamente, ci si deve occupare dell’educazione all’immagine, della cultura dell’immagine. Un quesito che rimane: l’immagine ci viene donata o la si deve cercare o conquistare?
S.S.: Penso che l’immagine bisogna conquistarla. Prima mi hai detto che la maggior parte delle volte il lavoro vince sull’artista. Dalla baudeleriana, ineluttabile necessità della prostituzione per il poeta, all’ineluttabile necessità di prostituirsi delle immagini.
L’immagine si consegna al mondo, completamente e contro ogni controllo da parte della volontà dell’artista. L’immagine si libera e l’artista deve aiutare l’immagine a liberarsi?
F.G.: Vengo da una cultura condivisa da un’intera generazione di artisti che voleva veicolare lo sguardo sul lavoro artistico. Erano gli anni in cui si credeva che si potesse cambiare il mondo con le fantasie, senza rinunciare allo specifico del proprio pensiero. Un pensiero, il nostro, che era frutto di tanti fraintendimenti, come quello che vedeva le avanguardie come veri atti rivoluzionari. Si credeva, o ci si illudeva, che lo spettatore dovesse vedere quello che aveva visto l’artista. L’artista offriva il suo lavoro, accompagnando poi lo spettatore a guardare nei luoghi dei suoi sguardi, a rintracciare le traiettorie concettuali. Non da oggi credo alla liberazione dell’immagine, anzi al suo vero e proprio allontanamento dagli sguardi dell’autore: l’immagine si libera negli occhi dello spettatore attraverso le sue personali interpretazioni.
S.S.: Quel regalo o dono che diventava quasi una costrizione.
F.G.: Sì. Adesso che è passato un po’ di tempo da quelle richieste, tanto tempo in verità, sono sempre più convinto che il dipinto si debba liberare, abbandonare agli occhi degli altri. Certamente gli strumenti di lettura sono utili, la contestualizzazione dell’opera, insomma, sapere di lei. La storia dell’arte è una costruzione semplificata, è costruita per secoli, per stili e categorie, ma noi sappiamo invece che è un grande ibrido, infinite immagini che sono entrate l’una nell’altra. Inoltre “bellezza” è un termine che oggi si deve coniugare al plurale. Plurali sono le ricerche artistiche come plurali sono i pensieri che le determinano e plurali sono anche i mezzi utilizzati a portarle in luce.
S.S.: Oltre a essere una disciplina molto giovane, così come lo è l’estetica. È interessante riflette sul fatto che si applicano alle opere d’arte delle categorie concepite a posteriori.
F.G.: Certo. Pensa alla “bellezza” nelle parole di Winkelmann, alle sue certezze che noi non possediamo più. Siamo fortunati e fluttuanti nel dubbio e nella difficoltà! Camminiamo in un terreno magmatico e denso di anacronismi, tutto coesiste. Attraverso le ricerche attuali pare che gli artisti tengono in uno scacco continuo tutti gli artisti che li hanno preceduti, li tengono in vita con il loro lavoro.
S.S.: Winkelmann, l’uomo che voleva sbiancare tutte le statue classiche.
F.G.: Mi ha da sempre interessato la scultura dipinta. La constatazione fondata che le statue del passato nascessero colorate ne ha mutato la percezione. Nel passato dovevano apparire come le rappresentazioni attuali dell’olimpo indiano, oggi diremmo kitsch. Noi invece le abbiamo accettate nel loro biancore, calcinate e senza pelle per merito proprio di Winkelmann. Questo discorso si lega alla citazione di Bachtin che hai fatto prima, quando dicevi che i greci antichi non sapevano di essere classici. Liberare la percezione del lavoro è oggi un tema molto sentito. Le mie superfici, tutto il mio lavoro che ti sta intorno, mentre ti parlo mi sembra insopportabilmente carico di racconto. Mi propongo di limitarlo, pulirlo, ridurne la voce; non è soltanto una sensazione momentanea, mi assale quando mi distanzio da lui, come in questo momento. Sono sempre più attratto dalla parola lavoro, come “messa in opera”, la parola “opera” mi si svuota sempre più di senso, come del resto la parola “arte”. Credo si debbano decongestionare dalla voragine di senso che hanno accumulato nel tempo. Una manciata di parole che hanno avuto e hanno una grande influenza sul mio lavoro – e che credo possono averla anche sullo sguardo dell’osservatore: sono termini come “usura”, “archeologia”,“archeologia del quotidiano”, “paesaggi in polvere”… il senso di queste parole forse è già contenuto nel dipinto, incastonato dentro i suoi strati, e può, di fronte a un imbarazzo dello sguardo, offrirne un accesso. Anche un titolo generoso talora ha questa funzione di orientamento. Molti artisti americani con untitledhanno agito all’opposto; è un modo per distanziare, non equivocare il loro pensiero, non deviare lo sguardo del pubblico. Amo molto e sembra un paradosso, l’arte minimal americana, la land art, la pittura monocroma. Il titolo però è più forte di me, serve a circoscrivere i cicli di lavoro e si deve intendere non come debolezza, ma come un atto di generosità, un sorriso a chi guarda.
S.S.: Quando ti ho interrogato sul rapporto arte e politica, ho maturato questa riflessione: dal mio punto di vista, la tua stessa procedura indica una presa di posizione politica. Il tuo modo lento di affrontare il lavoro è in qualche modo una forma di resistenza e di militanza rispetto a un mondo che ha innalzato a valore la velocità.
F.G.: Il mio lavoro richiede procedure molto lente e a volte anche noiose. Resistenza! Questa tua riflessione dà un rilievo particolare a tutto il mio lavoro, ed io la ricevo con molto piacere, come un complimento.
S.S.: Ti ripeto, secondo me è la tua stessa pratica che si posiziona ideologicamente, mettendoti come in un rapporto di antagonismo con alcune cose del mondo.
F.G.: Qualcuno ha detto che realizzare un dipinto ricorda la preghiera. Molto più semplicemente, direi, che è una somma di meditazioni. Nel mio caso, la lentezza di esecuzione mi permette o mi costringe alla meditazione prodotta agli infiniti sguardi che dedico al dipinto. Non lavoro sempre allo stesso: quando tradisce le mie aspettative, muovo su altre superfici. Mi capita di lavorare per mesi a una porzione di dipinto, tento di fuggirlo, sembra non funzionare mai, poi a un tratto sorride, appare risolto, m’illudo con quel suo sorriso che io possa abbandonarlo. Nascondo a me stesso la verità del suo infinito.
S.S.: Prima o poi ti devi fermare.
F.G.: Ci si deve fermare. L’abbandono è necessario quando possiedi la certezza di un’altra prova che ti aspetta, nessun dramma quindi. L’essere finito risulta sempre approssimato: in realtà forse il dipinto sfinisce l’autore. Non esiste un dipinto finito, forse esiste un momento nel quale il dipinto assume una tale prepotenza verso il suo autore da allontanarne le sue attenzioni. Il dipinto ti dà sempre una seconda possibilità, che si concretizza in un’altra prova. L’artista ritorna così al lavoro con più energia e qualche conoscenza in più rispetto a quelle che aveva prima di abbandonarlo. Spesso il lavoro deraglia e va in una direzione opposta al desiderio, la superficie produce spesso incidenti: incidenti buoni e incidenti cattivi. A volte piccoli accadimenti che avvengono all’interno di un progetto complessivo possono apparire soluzioni: una sorta di ritrovamento laterale al tuo sguardo. Esiste una parola: – serendipità – che identifica questi accadimenti, parola questa che uso raramente, non mi piace il suo suono. Si deve essere in grado di capire all’istante se ciò che hai trovato, e che non cercavi, può essere meglio di quello che cercavi, così ti abbandoni ad altre suggestioni. Ovviamente questo stato vigile non è riproducibile a piacere, non è uno stato di grazia, piuttosto consiste nell’essere predisposti all’accadimento.
S.S.: Più volte oggi hai citato Baudelaire e Benjamin, autori che hanno subito una grande fascinazione per la figura del flâneur. Questa parola forse potrebbe risolvere la scomodità di usare la parola “serendipità”?
F.G.: Sì, anche se ammetto che neppure la parola flâneur si addice al caso, ne è vicina, ma forse si addice di più all’atteggiamento che avevo all’origine del mio lavoro. La figura del flâneur non mi piace molto, mentre invece mi piacciono i pensieri di Benjamin e di Baudelaire. Mi domando spesso che cosa abbiano visto, quali sono i dipinti che hanno amato e forse suggerito le loro alte e belle parole dedicate all’arte e agli artisti. Di nuovo siamo accompagnati alle parole del mito ed è interessante fare gli archeologi delle parole e delle sensazioni. E si può capire se si svuotano le immagini dal Romanticismo, che ha colonizzato il nostro mondo per secoli; se si tolgono un po’ di vesti e di veli forse si possono meglio vedere le intimità delle immagini. Spesso mi chiedo cosa abbia stimolato, in questi grandi pensatori, certe riflessioni così alte sull’arte. Che cosa avranno visto oltre a ciò che ci è dato sapere dalle loro vite? Quali dipinti, quali esperienze visive? È una curiosità a tratti ingenua, ma se le ascolti le loro parole, come ad esempio nel caso di Heidegger che circoscrive gli oggetti con quel ritmo non dolce ma musicale…
S.S.: Be’, Heidegger guardava le scarpe di Van Gogh. A mio avviso è straordinario il saggio “L’epoca dell’immagine del mondo” all’intero di “Sentieri interrotti”. Ma visto che ci stiamo dilungando in citazione letterarie e filosofiche, parlami un po’ delle tue letture abituali.
F.G.: Il tentativo ardito del filosofo tedesco di decretare la fine dell’allegoria e dell’imitazione in pittura, a favore del disvelamento dell’essenza dell’opera d’arte, insidiata dalla tecnica. I grandi studiosi del Novecento, in particolare gli psicoanalisti hanno visto l’arte sempre in questo quadro prospettico: Caravaggio, Van Gogh e Bacon. Tu però continui a portarmi su un terreno insidioso! Mi sto meritando il premio? Non sono altro che un curioso che legge anche le parole alte dei grandi filosofi come un grande racconto. Si, ho letto Sentieri interrotti di Heidegger, e mi sono smarrito nella “cosità della cosa”! L’altra mia faccia meno pensosa è quella che di recente ho rivolto a Bolaño, dalle sue parole sono stato felicemente accompagnato fino a ieri. Non conoscevo la sua scrittura, ne avevo però visto il ritratto su di un quotidiano, come sfondo alla sua strana persona aveva probabilmente una vetrina in allestimento, un grande vetro dipinto distrattamente e che si dichiarava come uno schermo invalicabile per chi guardava, mi aveva molto colpito quell’immagine. Poi l’immagine si è ricongiunta con la sua scrittura, una vera fortuna. Proprio ieri sera ho letto Stella distante; la sua vaghezza è meravigliosa, a tratti filosofia oscura, poi parola sorridente, è un vero prisma di emozioni spesso contrastanti. La sua scrittura è ritenuta da molti, disomogenea, con picchi di altissima qualità narrativa. Quando però si ama un artista, si ama anche quando sbaglia. Ti confesso che il prossimo libro che mi attende è quello appena pubblicato dell’amico Ermanno Cavazzoni. Come vedi volo da un fiore all’altro, senza troppo sostare su di un solo genere letterario a parte le biografie.
S.S.: Il tuo lavoro si inscrive in una poetica legata alla rovina e al frammento: c’è qualcosa nel tuo lavoro che mi ricorda le incisioni di Piranesi. Quelle rovine in mezzo al paesaggio, quei frammenti di passato conquistati dall’edera e dalla terra. Qual è il fascino che esercitano su di te questi elementi?
F.G.: Piranesi è uno degli artisti che ho guardato maggiormente: non descrive soltanto l’archeologia romana, ma utilizza il “resto” come soggetto per una sorta di fioritura, sono immagini le sue che non appartengono alla realtà se non parzialmente. Piranesi utilizza le categorie del fantastico e dell’onirico, sembrano rovine sognate, le “carceri” poi… .
Il frammento, questa esistenza che in realtà è un brandello di passato, come “resto” interpretabile, ci consente di utilizzare gli strumenti della fantasia, attraverso i quali intravvedere il passato, almeno l’ombra del passato. Non amo le ricostruzioni, quando si prova a sommare al “resto” la sua parte mancante – nel tentativo di ritrovare quella totalità dell’oggetto perduto, si ottiene un suo allontanamento. Il passato l’ho sempre vissuto come perdita – le sue lucide ricostruzioni spesso ne vanificano il senso. Non è possibile riportarlo in vita, privato com’è degli sguardi, degli umori, dei sapori, dei dolori, che l’hanno tenuto in vita. Credo si debba accettarene l’esistenza ammantata dalle incrostazioni del tempo, il frammento quindi come soggetto di fantasie. Il frammento è una porzione rivelatrice del tutto. «La rovina basta a se stessa» afferma Marc Augé nelle pagine che ha dedicato ai miei lavori fotografici degli anni Settanta. Mi pare che questa citazione, meglio delle mie molte parole restituisca il senso delle mie ricerche.
S.S.: Il frammento è usato anche come categoria estetica e la rovina non è una parte di qualcosa, ma possiede una sua autonomia.
F.G.: Noi camminiamo sul passato, su una sua frammentazione stratificata. Mi torna alla mente, il mondo sotterraneo e cavo raccontato da Artaud in Al paese dei Tarahumara, e anche La Gran bevuta di Renè Doumal. Quella loro idea che ci muoviamo su una pelle di mondo sotto abitata. Camminiamo sulle vibrazione dei tempi.
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Franco Guerzoni è nato nel 1948 a Modena, dove vive e lavora.
Fin dai primi anni ’70, nel clima del Concettualismo allora imperante, si dedica ad una personale ed intensa ricercadei sistemi di rappresentazione dell’immagine attraverso l’uso della fotografia, prestando grande attenzione all’affascinante mondo archeologico. I primi anni ottanta hanno segnato una decisa svolta artistica e l’inizio di un percorso tutto nuovo: se nel decennio precedente gli interessi di Guerzoni si erano concentrati sulla tecnica fotografica e sulla realizzazione di libri artistici dedicati al tema del viaggio, a partire da questo momento sceglie di dedicarsi alla realizzazione di grandi opere parietali gessose. Alla fine del decennio Guerzoni approda a una ricerca sulla superficie intesa come profondità, che dà luogo a grandi cicli di opere quali Decorazioni e Rovine, presentate alla Biennale di Venezia del ’90, e Restauri provvisori, in mostra alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna.